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Ritornano i padroni del vapore

L'intera vicenda provoca domande che a loro volta generano dubbi e perplessità.
Sergio Marchionne è un manager abilissimo che ha trovato la Fiat in uno stato comatoso ed in pochi anni l'ha riportata fra i protagonisti del mercato dell'auto. Ama il suo Paese anche se ha trascorso parte della sua vita all'estero, ma nel contempo è un profondo conoscitore delle regole che sovrintendono alla competizione economica internazionale.
Ora, è plausibile affermare che abbia deciso di investire massicciamente in Italia per puro senso civico e di responsabilità sociale quando tutte le evidenze economiche suggeriscono che rebus sic stantibus è più conveniente farlo in altri stati o siti produttivi già esistenti (leggi Serbia, come peraltro annunciato, o la stessa Polonia, ovvero nei paesi del Bric dove la domanda rimane sostenuta)?

La produzione mondiale di automobili è scesa da più di 70 milioni nel 2008 a 61 nel 2009 e l'anno scorso la Cina è diventata il primo costruttore mondiale scavalcando il Giappone. L'Europa occidentale è alle prese con un eccesso di capacità produttiva ed in Italia nell'ultimo decennio il numero di veicoli usciti dalle nostre fabbriche si è dimezzato ed oggi Fiat produce sul territorio nazionale circa 1/3 delle sue auto. In Serbia il costo del lavoro è enormemente inferiore al nostro, la preparazione delle maestranze di buon livello, le infrastrutture adeguate e lo Stato e gli enti locali concedono incentivi per gli insediamenti industriali e una tassazione molto favorevole.

Di fronte a questi elementi oggettivi non si può non pensare ad una vecchia massima andreottiana (a pensar male si fa peccato ma non si sbaglia): non è che la Fiat sperava che le sue proposte fossero respinte all'unisono dal mondo sindacale in modo da poter giustificare il trasferimento all'estero di gran parte della sua produzione (noi volevamo investire, ma non ci hanno consentito di farlo)? D'altronde, le ultimissime mosse decise a Torino rafforzano i nostri dubbi. Le prese di posizione radicali contro il sindacato ribelle, la decisione di trasferire comunque in Serbia la costruzione del nuovo modello di monovolume, lo scorporo del settore auto per facilitare alleanze con partner internazionali indicano che il cervello forse resterà in Italia ma le braccia parleranno sempre più un'altra lingua.

Come era prevedibile, al di là dei tanti discorsi sull'unicità e non replicabilità del caso Fiat, si iniziano a percepire le conseguenze sui rapporti futuri fra mondo imprenditoriale e lavoratori: se lo ha fatto la prima azienda manifatturiera del paese, chi può impedire ad altre di mettere in discussione norme contrattuali sgradite in nome dell'aumento di efficienza e crescita di produttività da ricercarsi solo in una direzione, quella del lavoro? Fa un po' sorridere il dibattito che si è aperto sulla partecipazione dei lavoratori agli utili delle imprese: c'è forse una legge che la vieta? E come si intende attuarla, con modelli di cogestione alla tedesca, o magari riservando ai dipendenti delle stock option (ad esempio azioni di risparmio)?
Tutte le previsioni parlano di un tasso di disoccupazione che nel 2011 si attesterà al 9%; non è più sensato concentrarsi su questo, sulla crescita asfittica, sulle tasse che opprimono soprattutto il lavoro dipendente, sull'aumento, al di là degli annunci, della pressione fiscale e lasciar perdere altre questioni affrontate in termini di pura accademia?
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