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Le favole sull'Europa e gli incubi della crisi

I profitti di un sistema produttivo preistorico e cannibalesco, perduti dalla finanza speculativa, vengono ripagati con i debiti pubblici a tassi da usura.


Anche in Italia ci raccontano favole: servono riforme strutturali e maggiore flessibilità nel mercato del lavoro. Ed intanto viviamo tutti in un incubo: Cassa integrazione, licenziamenti, disoccupazione giovanile, fallimenti delle imprese.

Ci facciamo prendere in giro, anche noi italiani, come Pinocchio dal Gatto e la Volpe: il debito pubblico, ormai per oltre il 60% in mano di famiglie, banche, assicurazioni e fondi di investimento italiani, ci costa uno sproposito. In dieci anni, tra il 2001 ed il 2011, fino a quando lo spread non è schizzato in alto, è costato 796 miliardi di euro, un ammontare pari al 55% del PIL del 2011. I cittadini tedeschi hanno pagato interessi per 716 miliardi, pari al 31,2% del loro PIL, mentre i francesi hanno sborsato appena 527 miliardi, il 29,8 del PIL.

Questo è il Campo dei miracoli in cui vive l'Italia: soggiogata dall'illusione pinocchiesca che sia possibile arricchirsi a spese della collettività, lucrando sul debito pubblico, accompagnata dal terrore di essere bruciati vivi dal Mangiafuoco dello spread, che balza improvviso sugli schermi come se fosse una fiamma. E' un trasferimento continuo di ricchezza dall'economia reale, prelevato con le imposte, che remunera i rentier che pretendono tassi elevati, come premio al rischio. Il supplizio continuerà: il servizio del debito crescerà ancora, passando dagli 83,9 miliardi di euro del 2013 ai 90,7 del 2014, inerpicandosi ai 97, poi ai 104, ed infine ai 109 miliardi nel 2017, quando assorbiranno il 41% delle imposte dirette, risultando pari al 91% delle spese per il servizio sanitario nazionale ed al 255% del totale degli investimenti pubblici, che nel 2017 ammonteranno ad appena 42,8 miliardi di euro.

In Europa, nessun investimento nuovo è previsto, né pubblico né privato: gli Stati sono a dieta ed i privati hanno gli stabilimenti fermi, perché non c'è domanda. Le imprese si sono spostate per un decennio, da un Paese all'altro, delocalizzando gli impianti e le sedi sociali, per risparmiare sul costo del lavoro e sulle imposte: produzioni preistoriche e metodi concorrenziali cannibaleschi.

Tra il costo astronomico degli interessi, il divieto di sussidi alle industrie e l'austerità imposta per tornare subito al pareggio strutturale dei bilanci pubblici, la crisi europea si avvita. Le banche cercano di compensare con i proventi dei titoli di Stato le perdite che accumulano sui fidi e sulle partecipazioni nelle imprese: sofferenze e svalutazioni, seguite da svalutazioni e sofferenze. E, nel frattempo, i capitali ritirati dalle banche dei Paesi meridionali giacciono inoperosi, presso la Banca Centrale Euroea: lì, almeno, non c'è rischio di perdite. Depositati a tasso zero, mentre si cerca di recuperare quanto è stato perso.

Non si può uscire dalla crisi europea replicando il passato: l'Unione fiscale e quella bancaria sono un'altra favola, l'ennesima. Il vero problema dell'Europa non è rappresentato dall'alto costo del lavoro, ma dal basso livello degli investimenti produttivi e di innovazione: continuiamo a produrre le stesse cose di cinquanta e cent'anni fa: automobili, vestiti, piastrelle. Non facciamo più neppure i computer, i televisori o i telefonini. La libertà di circolazione serve solo a rubarsi il lavoro l'un l'altro, con le imprese che riciclano sempre gli stessi impianti spostandoli dove il salario è più basso.

Un'Europa ormai senza democrazia, dominata da banali burocrati al soldo di presuntuosi mercanti di soldi, incapaci di creare benessere sociale. Senza futuro.

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