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All'Ilva da anni si mena il can per l'AIA

Troppe sviste burocratiche, e non solo, nella gestione amministrativa della Autorizzazione integrata ambientale hanno prodotto ritardi ed inconcludenze che si pagano care.


Si è riaperta, sotto un nuovo versante, la violentissima polemica sulle iniziative assunte dalla Magistratura di Taranto che nell'estate scorsa, al fine di evitare la prosecuzione del danno sanitario ed ambientale, dispose il sequestro dell'impianto con la nomina di un custode giudiziario ed il fermo delle attività pericolose. Considerati i danni pressoché irreparabili ad un sistema di produzione siderurgica a ciclo continuo e le rilevantissime conseguenze sul piano economico e sociale, nonché reputando che la rinnovata AIA rispondesse in modo adeguato alle esigenze di risanamento dacché imponeva la adozione delle tecnologie più avanzate in materia ambientale, il Governo Monti emanò il decreto-legge 231, confermando che spetta esclusivamente all'autorità amministrativa disciplinare le modalità e le condizioni per l'esercizio degli impianti industriali strategici, tra cui l'Ilva, ed indicare le misure per la tutela della salvaguardia della salute dell'uomo e dell'ambiente. Il braccio di ferro proseguì davanti alla Corte costituzionale che non accolse però il ricorso della magistratura, ritenutasi lesa nella sua sfera di azione.

Proviamo grande pena per le gravissime sofferenze umane determinate nel tempo dall'inquinamento provocato dall'impianto e grande preoccupazione per le conseguenze sociali che deriverebbero dal suo fermo, ma esprimiamo altrettanta riprovazione per come è stata gestita la vicenda sul piano amministrativo. Basta leggere gli atti ufficiali per comprendere come in questi anni siano stati costruiti colossali castelli di sabbia: l'AIA del 2011, come quella rinnovata nel 2012, non hanno imposto alcuna salvaguardia finanziaria per garantire l'esatto e tempestivo adempimento delle prescrizioni da esse recate. Nelle 973 pagine redatte dalla Commissione istruttoria dell'AIA del 2011, solo a pagina 971 compaiono due righe striminzite, anzi appena una riga ed una parola a capo, in cui si prevede che: "L'autorità competente, in sede di rilascio dell'AIA stabilisce eventuali prescrizioni di natura finanziaria".

Pur nella stringatezza di quest'unica frase, c'è una parola di troppo, improvvida: "eventuali". Nel decreto ministeriale di autorizzazione l'eventualità non si materializza e nulla viene disposto in proposito, mentre la sanzione per gli inadempimenti oscilla tra il risibile e l'inverosimile: epperò è la legge a prevederla. All'articolo 9 dell'AIA, che detta le disposizioni finali, nel comma 6 si prevede che "… la violazione delle prescrizioni poste dalla presente autorizzazione comporta l'irrogazione di una ammenda da 5.000 a 26.000 euro, salvo che il fatto costituisca più grave reato, oltre a poter comportare l'adozione di misure… che possono arrivare alla revoca dell'autorizzazione e alla chiusura dell'impianto". Nella rinnovata AIA del 2012 non cambia nulla, salvo che l'identica sanzione è inserita all'articolo 4, comma 7.

Sono stati atteggiamenti farisaici: mentre da una parte sono state accumulate montagne di prescrizioni, dall'altra non sono state inserite le necessarie garanzie di adempimento. Se l'ammenda pecuniaria è ridicola, la misura draconiana della revoca della autorizzazione e della chiusura dell'impianto suona del tutto implausibile: una sceneggiata, degna del più classico "facite la faccia feroce!" Non ci permettiamo, per carità di Patria, di commentare la più salata sanzione introdotta dal d.l. 231, che arriva "fino al 10% del fatturato": verrebbe irrogata dal Prefetto, curiosamente ritenuto l'Autorità competente. L'interesse pubblico alla attuazione tempestiva ed inderogabile delle misure di risanamento sanitario ed ambientale non è stato presidiato adeguatamente: è stato tutelato solo a parole.

Serviva molto poco: una chiara individuazione dell'importo di spesa necessario per realizzare i singoli adempimenti previsti nell'AIA e la previa acquisizione di una cauzione per l'importo complessivo, da escutere a prima richiesta da parte dell'Amministrazione. Questo impegno finanziario, insieme alla responsabilità solidale per i danni ambientali eventualmente provocati, dovevano essere accollati alla proprietà della società di gestione dell'impianto, la stessa che lo aveva acquistato dallo Stato. Constatato un eventuale inadempimento alle prescrizioni, si sarebbe potuto procedere immediatamente in via sostitutiva, con i mezzi finanziari già messi a disposizione.

La storia non si scrive con i se, ma è probabile che non si sarebbe arrivati al sequestro giudiziario degli impianti al fine di far cessare una situazione di grave danno per la salute e di pregiudizio per l'ambiente, ed ora il nuovo sequestro non avrebbe inciso sulla disponibilità delle risorse necessarie per adempiere alle prescrizioni di risanamento.

Ora c'è chi si inerpica tra ipotesi mirabolanti, discettando di nazionalizzazioni, cordate di salvataggio, commissariamenti governativi o giudiziari. Accade a chi colpevolmente, per anni, ha perso il suo tempo.

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