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Il disco rotto della politica

I programmi di politica economica non propogono modelli orientati alla crescita.

Sembra un disco rotto. Quando il 35% dei giovani è senza lavoro, quando un 45enne licenziato fatica a trovare un'occupazione, quando sono sempre più numerose le famiglie che ricorrono al sostegno delle mense della Caritas o dei frati, il governo deve avere un solo obiettivo: il lavoro.

Non attacca più il termine riforma, ormai inflazionato dal vocabolario del governo. Di tempo e parole ne sono state spese troppe e il termine riforma lo ritroviamo persino dietro gli sportelli della dispensa; siamo all'epilogo di una tragedia fumosamente delineata, che non viene percepita nella sua totale gravità. Servono misure concrete, non perdite di tempo. Non grandi riforme, ma interventi mirati, perché chi ha perso il lavoro e non ce la fa a portare a tavola pranzo e cena non può attendere oltre. I giudizi sulla ripresa sono discordanti.

Da un lato il presidente di Confindustria, Squinzi, ha gelato Saccomanni dicendo che la ripresa tarderà a venire.
Dall'altro le piccole imprese mostrano segni di risveglio, ma la mannaia del fisco è gia pronta a calare, vanificando i tiepidi segnali di rilancio. Intanto lo spread risale e i tassi a breve decollano.
Per cui la prima cosa da fare è cancellare il termine "riforme" e fare delle scelte politiche mirate e immediate, che non si perdano nel labirinto della burocrazia. Le riforme economiche, quelle di più ampia portata e di maggior peso dovranno attendere la paternità di un governo più "normale", espressione di una legge elettorale, quella sì da riformare, in linea con le democrazie evolute.

E poi la riduzione delle tasse sul lavoro, che fanno sì che in Italia un lavoratore non sposato costi all'impresa circa due volte il suo stipendio netto, contro un rapporto pari a 1,7 nel resto dell'area euro.

Infine la lotta alla corruzione, che costa allo Stato circa 200 miliardi all'anno; un'esagerazione.
Il rientro nell'alveo della normalità indice a perseguire il concetto di legalità. Non c'è lavoro senza legalità, non c'è lavoro laddove c'è corruzione, che danneggia la nostra vita in molti modi, ad esempio intaccando la filiera della produzione alimentare del 5,6%, come indica uno studio dell'Eurispes.
Quindi le dispense e i frigoriferi degli italiani non si svuotano solo a causa della crisi, ma anche per un pervasivo processo corruttivo, che determina una consistente riduzione del PIL e del reddito procapite. Tutto a svantaggio della competitività sui mercati internazionali e sulle opportunità di creazione di posti di lavoro. E il cerchio si chiude.

Per questa e per molte altre ragioni, la lotta alla corruzione deve essere una priorità del Parlamento e non una medaglia all’onore quando si parla di moralità e senso civico.

Ma la politica da quell'orecchio continua a non sentire: dopo aver compresso e calmierato, all'inizio degli anni '90, la politica dei salari e sterilizzato di fatto l'inflazione, è lungi dal riproporre modelli più flessibili e orientati alla crescita.
Va bene tutto, resta il fatto che gli italiani sono più poveri di vent'anni fa e lo squilibrio della distribuzione della ricchezza è sotto gli occhi di tutti.

Guai a porvi rimedio, sarebbe come smentire sé stessi vanificando, di fatto, un ventennio di inettitudine.

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