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In Egitto tornano i Faraoni

L'irresistibile parabola ascendente dell'islamismo è terminata. È questo il "nuovo inizio" promesso da Obama a giugno del 2009?

Nel giugno del 2009, nel suo primo viaggio all'estero, il Presidente americano Barack Obama visitò l'Egitto: intervenendo presso l'Università de Il Cairo, ed ostentando quindi un distacco dalle sedi ufficiali, annunciò un nuovo inizio nelle relazioni tra gli Usa ed il mondo islamico. Finiva sicuramente il bushismo, l'esito finale dell'unilateralismo che aveva fatto degli Usa il poliziotto del mondo a partire dalla dissoluzione dell'Unione sovietica, suscitando la reazione terroristica delle frange islamiche culminata nell'attentato alle Twin Towers di New York l'11 settembre del 2001. La liberazione dell'Afganistan dai talebani e l'abbattimento del regime di Saddam Hussein che minacciava la sopravvivenza di Israele, avevano trasformato l'America in un antagonista del mondo islamico. Un cul de sac da cui Obama voleva uscire, anche a costo di togliere ogni sostegno ai regimi moderati dei Paesi arabi, come l'Egitto, che tenevano sotto stretto controllo le ambizioni politiche delle rappresentanze islamiche.

Il Presidente Obama aveva aperto una fase nuova nelle relazioni tra gli Usa e il mondo arabo. La prima occasione per dimostrare il cambio di direzione si ebbe nell'inverno del 2011, in occasione degli assembramenti a Piazza Tahir, dove centinaia di migliaia di giovani, all'apparenza festanti e autonomi rispetto agli schemi precostituiti, reclamavano libertà nei confronti della democratura impersonata dal Presidente Hosni Mubarak. - Se ne deve andare! -, proclamò Hillary Clinton, allora Segretario di Stato americano. E così fu: intervennero i militari, che fino ad allora si erano astenuti da qualsiasi intervento repressivo contro i manifestanti, a differenza della polizia che era intervenuta pesantemente sin dalle prime avvisaglie dello scontento, con l'unico risultato di rendere ancora più inviso all'interno ed al mondo intero il regime di Mubarak. Solo allora, i militari egiziani si fecero carico di mettere agli arresti il premier, poi sottoposto a processo.

Stavolta, in seguito alla deposizione del Presidente egiziano Morsi da parte dei militari, è stato direttamente il Presidente Obama ad affermare che: - Gli egiziani meritano di più! -. Di lì a poche ore, la situazione è precipitata. I filmati degli scontri sanguinosi tra l'esercito e i sostenitori della Fratellanza musulmana diffusi via web sono contraddittori, come si conviene alla società dell'immagine che può essere manipolata da chiunque abbia accesso a un media. Siamo al centro di un processo politico, sociale e istituzionale molto profondo, non comprensibile attraverso le immagini del network televisivo o del video postato su You Tube. Ragione e torto, da un video all'altro, si confondono. Serve un'analisi più profonda.

C'è un fatto nuovo, intanto, rispetto alla vicenda di Mubarak: stavolta sono stati i militari che hanno agito per primi, per destituire e mettere agli arresti il Premier Morsi, a capo dell'Egitto dopo che le elezioni politiche avevano segnato la vittoria della Fratellanza araba, un movimento di osservanza musulmana che ha ottanta anni di storia, ma che prima d'ora non aveva mai governato il Paese. E, sempre per primi, sono stati i militari che hanno mosso l'attacco agli accampamenti urbani in cui si erano concentrate decine di migliaia di aderenti alla Fratellanza araba che chiedevano non solo la liberazione del Presidente Morsi ma la sua reintegrazione. Il fatto che nei giorni precedenti ci fossero stati scontri e attacchi che hanno giustificato formalmente l'intervento dei militari, è del tutto ovvio: era in atto da tempo un conflitto sul monopolio del potere.

In Egitto c'è un dato molto rilevante, che Mubarak alla fine di una lunghissima carriera politica e Morsi da subito hanno sottovalutato: i militari rappresentano un establishment che ha un radicamento sociale ed economico estremamente rilevante. L'esercito è lo Stato, perché è suo il monopolio della forza. La Costituzione egiziana è stata stravolta di recente, più e più volte: non solo da Mubarak, per consentire la sua rielezione oltre i limiti previsti, ma anche da Morsi, per ampliare l'ambito dei giudizi emessi da tribunali religiosi che giudicano sulla base dei precetti islamici. La crisi del premierato di Mubarak si deve alla designazione come suo successore di un figlio non appartenente alla casta militare. Da Nasser in poi, tutti coloro che hanno avuto il controllo dell'Egitto sono stati ufficiali di rango. In quel caso, l'esercito comprese che avrebbe perso peso. Serviva un nuovo leader, capace di dar voce alla nuova classe imprenditoriale che tante relazioni intrattiene con l'economia occidentale, di dare speranze nuove ai milioni di giovani. Le elezioni del dicembre 2010 erano state caratterizzate da un florilegio di nuove sigle politiche: era il segno di un rinnovamento incipiente, ancora non in grado di condizionare in Parlamento il partito di Mubarak. I Fratelli musulmani non erano riusciti ad ottenere un grande consenso, ma si dice che fossero stati ostacolati illegittimamente nelle candidature e nei seggi. Dopo la deposizione di Mubarak, mancando un leader legittimato del suo partito da sempre maggioritario, il National Democratic Party, nelle successive elezioni politiche hanno prevalso le rappresentanze dei Fratelli musulmani: dopo aver eletto Morsi alla Presidenza, è stata modificata la Costituzione per estendere i poteri delle Corti Islamiche che giudicano sulla base della sharia, il dritto che si fonda sull'interpretazione del Corano.

Dal 2011, in Egitto si è rotto un equilibrio di potere, anche nei confronti del militari, perché i Fratelli musulmani hanno dimostrato di volere una legittimazione popolare diretta: istituzionalizzando quella rete sociale, economica e giuridica parallela a quella statale che avevano costruito in ottanta anni di militanza. Lo Stato, le istituzioni e lo stesso esercito, sarebbero stati assorbiti in questa gigantesca ameba. Paradossalmente, l'abolizione dello stato di emergenza, che durava da tempo immemorabile, è stato il campanello di allarme più pericoloso: in Egitto non c'era più bisogno dei militari e della loro tutela.

I militari egiziani conoscono a perfezione il processo di islamizzazione compiuto a Teheran dopo la caduta dello Scià: sanno bene che cosa sia la teocrazia. Gran parte del popolo egiziano sostiene i militari. Se nulla esiste al di fuori dei poteri del sinedrio, ed ogni autorità è solo religiosa, per l'Egitto è molto meglio tornare ai suoi Faraoni: un nuovo leader riconosciuto da tutti, e non da una parte sola. La parabola dell'islamismo totalizzante, capace di rappresentare tutto il mondo arabo, apoditticamente e per virtù indiscutibili, è già in declino. È questo il nuovo inizio?


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