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Bamboccioni per sempre?

Il nuovo contratto di lavoro a tempo indeterminato, privo della tutela dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, avrà effetti sociali dirompenti: nei posti di lavoro, tra dipendenti pubblici e privati, in famiglia.

La politica è quella del carciofo: i lavoratori vengono privati dei diritti un po’ alla volta. Stavolta si ridefinisce il contratto di lavoro a tempo indeterminato, privandolo della reintegrazione sul posto di lavoro nel caso di licenziamento senza giusta causa: la sanzione per il datore di lavoro cresce con l’anzianità nell’impiego, fino a 24 mensilità di salario. Per questo si afferma che il contratto è “a tutele crescenti”. In conclusione, l’imprenditore non avrà che da mettere mano al portafoglio. E’ un contratto di lavoro, in realtà, “a tutele ridotte” rispetto a quelli stipulati finora.

La prima conseguenza, già ampiamente prevista, è di avere nella stessa azienda due categorie di lavoratori a tempo indeterminato: con o senza tutela di reintegrazione nel posto di lavoro, a seconda della data in cui sono stati assunti. E’ una disparità di trattamento che farà masticare amaro i nuovi assunti, con sicuro pregiudizio per la convivenza aziendale e le relazioni sindacali. Prima o poi, si interverrà per sanare questa ingiustizia: il Governo non aspetta altro per farlo. Un’altra foglia del carciofo verrebbe fatta fuori, ma intervenire subito solleverebbe una baraonda: rimarrà il malessere, chissà per quanto tempo.

C’è una seconda questione: viene bloccata la flessibilità in uscita dal mercato del lavoro. Se fino ad oggi, nonostante la crisi, si poteva passare da un impiego all’altro dopo aver già preso accordi con l’azienda interessata ad assumere, d’ora in avanti nessuno si azzarderà a cambiare posto di lavoro: il nuovo contratto, sempre a tempo indeterminato, sarà poco tutelato. E così rimarranno tutti avvitati alla sedia, pur potendo e volendo cambiare lavoro. Insomma, un pasticcio.

C’è poi una terza distorsione: il nuovo regime del lavoro a tempo indeterminato non vale per gli impiegati pubblici. Siamo tornati indietro, rispetto alla cosiddetta “privatizzazione” dei contratti per il pubblico impiego, che è servita solo a far lievitare gli stipendi pubblici senza nessun miglioramento in termini di produttività e di efficienza. Ci hanno guadagnato solo i sindacati, che hanno trovato milioni di nuovi iscritti e fabbricato montagne di contratti collettivi.

Nel lontano passato, la regola era ben diversa: i pubblici dipendenti avevano un posto stabile, a vita, ma stipendi assai bassi; i lavoratori privati, invece, avevano un posto di lavoro alle dipendenze di una impresa sempre alle prese con le incertezze del mercato, ma salari più alti. Ora, dopo la “privatizzazione dei contratti del pubblico impiego”, avremo salari pressoché analoghi nei due settori, ma con il nuovo contratto a tempo indeterminato i lavoratori privati saranno ampiamente penalizzati. Se è inimmaginabile introdurre il licenziamento “ad nutum” anche nel pubblico impiego, è ovvio che la divaricazione dei trattamenti giuridici del contratto a tempo indeterminato a seconda che il datore di lavoro sia privato oppure pubblico diviene insostenibile.

C’è una ultima questione: per i giovani, che tanto agognavano la stabilizzazione, il contratto di assunzione a tempo indeterminato suona beffardo. Da un giorno all’altro, anche senza motivo, potranno essere licenziati: metteranno in tasca qualche mensilità di stipendio, davvero magra consolazione. Altro che lasciare la casa dei genitori, farsene una per conto proprio e magari mettere su famiglia. Meglio non rischiare: bamboccioni per sempre?



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