La preoccupazione di tutti in questo momento è la
sopravvivenza dell'euro e del sogno ad esso sotteso di un'Europa finalmente pacificata con se stessa, aliena da conflitti fratricidi.
Per l'Europa periferica, la crisi dell'euro è una crisi dei debiti pubblici: in alcuni casi, come l'Irlanda e la Spagna, per lo scoppio della bolla immobiliare, che ha travolto le banche salvate dalle pubbliche tesorerie, a prezzo della trasformazione di debito privato in debito pubblico; nel caso della Grecia, aiutata nell'opera di mascheramento anche da una grande banca d'affari americana, per la consapevole falsificazione dei conti pubblici; in altri, come l'Italia e il Portogallo, per la
scarsa crescita dell'economia a causa della perdita di competitività, della difficoltà nel restringere il
pubblico disavanzo, dell'
aumento del costo del debito e del conseguente innalzamento del rapporto debito/Pil.
In Italia, l'andamento della produttività del lavoro - che riflette in larga misura quello della produttività totale dei fattori - è da oltre un decennio insoddisfacente. Dopo essere cresciuto dal 1992 al 2000 più che negli altri principali paesi europei (1,7 per cento in media d'anno, contro 1,3 della Germania e 1,1 della Francia), il valore aggiunto per occupato in termini reali, nell'intera economia, ha bruscamente frenato nel decennio successivo; tra il 2001 e il 2007 ha ristagnato, a fronte di incrementi medi annui dell'1,5 per cento in Germania e dell'1,1 in Francia.
L'incapacità del sistema produttivo di espandere la propria efficienza a ritmi comparabili a quelli dei concorrenti europei ha riguardato tutti i principali settori di attività economica e le differenti fasi cicliche, anche se è stata più accentuata nell'industria.