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Keynes e il declino dell’impero americano

Il comportamento ciclico dell'economia, la scuola keynesiana e le elezioni USA.

Essendo di carattere curioso e indisciplinato, mi ha sempre affascinato il rigore della scuola austriaca – imparato sul campo con la “Richebacher Letter”, report di un grande pensatore economico ex capo economista della Dresdner Bank – e soprattutto Schumpeter, da cui ho appreso la teoria dell’intersezione ciclica come unica concreta possibilità di interpretazione della realtà economica applicata ai mercati.

Schumpeter – che certo non era un marxista – aveva una concezione molto interessante dello sviluppo del capitalismo. Cito da Wikipedia: “Per Schumpeter sarà, infatti, proprio il successo del capitalismo a renderne inevitabile il declino. Con il processo di distruzione creatrice che la caratterizza, l’economia borghese sostituisce i vecchi modi di produrre e pensare, promuovendo lo sviluppo, ma distrugge anche i valori tipici dell’ancien régime, importante supporto alla stabilità. Soprattutto – e qui si arriva alla geniale intuizione di Schumpeter – mentre nella grande impresa capitalistica il ruolo dell’imprenditore, creativo e diretto all’innovazione, verrà sempre più sostituito dalla mentalità burocratica e tendente all’immobilismo dei manager, nella società si affermeranno, ad opera degli intellettuali, valori contrari allo sviluppo capitalistico, facendo sì che i capitalisti stessi prima si vergognino del proprio ruolo ed, infine, rinuncino ad esso. A quel punto, una qualsiasi forma di socialismo sarà l’inevitabile sbocco al capitalismo monopolistico ed alla sua eutanasia. Il passaggio al socialismo non avverrà, infatti, a mezzo di una rivoluzione violenta, come profetizzato dai marxisti e realizzato dai bolscevichi, ma con un processo graduale, per vie parlamentari – ogni accelerazione rivoluzionaria, come quella sovietica, avrebbe unicamente causato innumerevoli lutti – e darà vita ad un sistema socialista compatibile con la democrazia, in cui si vedrà la concorrenza di gruppi corporativi, non più regolata dal mercato, bensì dallo stato”.

Fondamentalmente, Schumpeter era un pragmatico che credeva non in un determinismo di economie e mercati, ma in un legame strettissimo tra cause e effetti.

Sarebbe interessante capire cosa ne penserebbero Keynes e Schumpeter di questa situazione, che vede un Occidente assolutamente disomogeneo tra le sue due grandi aree.

L’Europa non è fuori dal tunnel: gli ultimi dati indicano che si è fermata la discesa, ma non basta. I segnali positivi delle borse fino ad ora sono rimasti isolati e non sono stati seguiti da un miglioramento delle due variabili primarie: fiducia dei consumatori (elemento leading=anticipatore) e occupazione (elemento lagging= ritardatario).

Negli USA la situazione sembra decisamente migliore, anche se le politiche monetarie ultraespansive non riescono a produrre nulla più di una crescita molto flebile, poco più di uno stallo.

Ma è lo scenario più ampio che attrae la mia attenzione e mi spinge a una riflessione che porta a conclusioni diametralmente opposte: e se l’azione del nocciolo duro (finanziariamente e politicamente parlando) dell’Europa in realtà fosse guidata (anche) dalla convinzione che la strada monetarista intrapresa dagli USA non porta da nessuna parte? E se in realtà si stesse veramente facendo il possibile – anche se questo possibile ha lati sgradevolissimi che ciascuno di noi tocca con mano - per evitare all’Europa di farsi risucchiare nel gorgo del debito e della leva? Detto in modo semplice e brutale: e se la Merkel alla lunga avesse RAGIONE?

La riflessione/provocazione non sorge diretta, ma sghemba, come derivata seconda o terza di un nugolo di riflessioni di varia natura sui mercati. Come economista pentito (quindi consapevole della sostanziale inutilità ai fini del profitto finanziario della filiera dati economici > modelli standard > previsioni> strategie operative) non entro nel merito dell’enorme dibattito tra scuola keynesiana e scuola austriaca, ma mi limito a prendere atto del qui e ora, che è quello descritto sopra. C’è però dell’altro, che pertiene in modo particolare agli USA e porta a un paio di considerazioni. La prima è operativa. Da fund manager, quale sono, ho progressivamente abbassato la quota azionaria sugli USA in seguito al loro sorprendente declino di forza relativa. Perché sorprendente? Perché molte big caps USA sono globali e perché il dollaro tanto debole non è. Ma i miei modelli sono spietati e in questo momento sono tutti girati contro il mercato americano. Si potrebbe limitare la questione a una osservazione empirica, e cioè che la fuoriuscita dall’Europa era stata talmente massiccia da dover forzatamente causare qualche effetto al momento di un rientro anche parziale. Andando a un livello leggermente più profondo, il vero problema emerge.

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