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Il 1° maggio? E' la festa del capitalismo. Perché, senza lavoro e benessere diffuso, non ha nessun futuro

Le banche centrali hanno immesso quantità gigantesche di moneta per salvare il capitale.


Nel Paese europeo più forte, la Germania, i dati di febbraio rilevano un 7,4% di disoccupazione, di un soffio più basso del 7,5% registrato nel 2008: è praticamente l'unico a non aver risentito della crisi. La Francia, infatti, la disoccupazione è passata infatti dal 7,4% al 10,2% di fine 2012, nel Regno Unito è cresciuta dal 5,7% al 7,7%, e negli Usa dal 5,8% del 2008 all'8,1% di marzo. Francia, Regno Unito ed Usa registrano circa 2-3 punti di aumento della disoccupazione, mentre in Italia il peggioramento è stato di 6 punti ed addirittura di 16 punti in Spagna. In Grecia, nel 2008, il tasso di disoccupazione era del 7,7%: è aumentato addirittura di 20 punti percentuali.

Ne risulta, assolutamente evidente, la strettissima correlazione tra manovre correttive di finanza pubblica ed aumento della disoccupazione: più sono state drastiche, più la disoccupazione è aumentata. Né, al momento, si nota alcun effetto positivo di quella che viene chiamata deflazione competitiva: l'aumento della disoccupazione avrebbe dovuto portare a livelli salariali più bassi e quindi ad una ripresa della competitività. In realtà i licenziamenti e le decurtazioni salariali comportano come unico effetto la riduzione della domanda interna e la distruzione di capacità produttiva. E' ben noto, infatti, che in Italia molte imprese sono costrette a chiudere: sono state 253 al giorno nel 2012, numero che quest'anno dovrebbe salire a ben 281 al giorno. Una ecatombe.

Vero è che le finanze pubbliche dei Paesi europei che hanno adottato le misure più drastiche, Grecia, Portogallo, Italia e Spagna, non permettevano di fare altrimenti: il livello del debito pubblico che avevano accumulato, o di quello ulteriore che poteva essere determinato da nuove crisi bancarie, ha reso indispensabili quelle manovre di riduzione del disavanzo pubblico che hanno portato ad una caduta del PIL e dell'occupazione.

Guardando al futuro, risulta evidente che ci sono tre alternative. La prima consiste nel mantenere inalterato l'assetto produttivo, per competere prevalentemente sui prezzi, aumentando la flessibilità del lavoro e quindi la disoccupazione per tenere bassi i salari e per questa via mantenere la competitività interna ed internazionale. La seconda consiste nella necessità di innovare in continuazione i prodotti ed i processi, puntando sulle nuove tecnologie, le energie alternative ed i nuovi bisogni: una strada difficile da percorrere, visto che presuppone capacità e risorse di certo non disponibili per tutti. La terza impone di fermarsi a ragionare: per comprendere se abbiamo bisogno di regole nuove, soprattutto in Europa, per difendere le conquiste di oltre un secolo in materia di tutela sociale dal dumping salariale, fiscale, valutario ed ambientale dei Paesi concorrenti; per verificare se a livello infracomunitario occorra introdurre livelli massimi agli attivi strutturali delle bilance commerciali, per evitare che le dimensioni socio-economiche, finanziarie ed organizzative dei Paesi forti si trasformino in politiche predatorie a danno di quelli più piccoli; per decidere se davvero ha ancora senso cercare di spostare la contrattazione salariale al livello aziendale per renderla più aderente alla produttività, in un contesto in cui le imprese hanno già il vantaggio di spostarsi liberamente da un Paese all'altro per sfruttarne i vantaggi fiscali, normativi e salariali.

La enorme quantità di moneta immessa nel circuito finanziario dalle banche centrali ha riportato in alto i valori di borsa: il capitale è salvo. Se è vero che lo sviluppo durevole non può fondarsi sull'indebitamento crescente delle famiglie e degli Stati, perché il pericolo stesso che si ripeta una crisi degli affidamenti sub-prime e delle finanze pubbliche dei Paesi periferici dell'area dell'euro pone condizioni di instabilità sistemica insostenibili, è altrettanto vero che questo deriva da una sottovalutazione del lavoro.

E' necessario che il lavoro sia socialmente diffuso e ben remunerato, in modo da stabilizzare e rendere prevedibili i comportamenti nel lungo periodo. Non si tratta di adottare politiche keynesiane o dirigiste, ma di tornare a convincersi che dalla disoccupazione di massa e dalla guerra tra i poveri, il capitalismo non ha niente da guadagnare. La Storia insegna.
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