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Il campo base

Non siamo in cima, ma ora comincia la parte più difficile.

Non siamo in cima, ma ora comincia la parte più difficile.

Ci sono tanti modi di andare in alta montagna. C'è quello degli alpinisti di una volta, ad esempio. Ci si allena a lungo in pianura o a fondovalle, si organizza la spedizione meticolosamente, si attinge dai racconti e dalle esperienze dei vecchi scalatori e finalmente si parte verso l'ultimo borgo della valle, là dove finisce la strada e iniziano i sentieri tra i prati.

Da qui, fatte le ultime provviste, ci si avvia verso il livello della neve perenne con calma e con pernottamenti nei rifugi, non per incapacità di andare più in fretta ma per ambientarsi meglio all'altitudine e per verificare strada facendo l'organizzazione della spedizione. Arrivati finalmente in quota, si piantano le tende sulla neve e si costruisce il campo base. Ci si resta qualche giorno, ci si riposa e ci si abitua all'ossigeno rarefatto. Nel frattempo si verifica ancora una volta l'attrezzatura e si aspetta che il tempo volga al bello. Da una certa quota in su in montagna non si scherza. Il tempo può cambiare improvvisamente e quella che sembrava una passeggiata si può trasformare in un calvario o in una tragedia. Si consultano quindi gli sherpa e le guide locali, che sanno leggere i segni del cielo, e poi si parte lenti, in cordata, per la cima.

Gli alpinisti professionisti di oggi saltano alcuni di questi passaggi. Hanno dalla loro parte la tecnologia, i satelliti, la biochimica e sponsor robusti. Spesso peccano di hybris e in qualche caso pagano caro l'eccesso di fiducia. Di solito però se la cavano, perché hanno comunque esperienza e perché sanno quello che fanno e quello che rischiano.

(Nella foto: Campo base sull’Everest)
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