In compenso
hanno imparato prontamente dai loro errori. Dopo il 1688 si sono risparmiati rivoluzioni borghesi e proletarie, colpi di stato, fascismi ed esperimenti sociali azzardati. Dopo l'indipendenza degli Stati Uniti hanno capito che le perdite vanno tagliate in tempo e hanno liquidato con grazia e dignità l'impero senza infilarsi in guerre perse in partenza come hanno invece fatto i francesi in Indocina e in Algeria o i portoghesi in Africa. E anche in Irlanda, quando è stata la volta dell'
Ulster, hanno mantenuto il conflitto sotto controllo e accettato poi un compromesso pesante ma onorevole che ha permesso al Regno di rimanere Unito.
Dal canto suo,
l'Europa in costruzione del dopoguerra è sempre stata un rompicapo per gli inglesi. Da vincitori della guerra non hanno mai provato nessuna particolare emozione verso il progetto federale e la sua narrazione pacifista. E tuttavia, una volta prevalsa l'idea americana di reindustrializzare la Germania in funzione antisovietica (Churchill l'avrebbe trasformata volentieri in un paese agricolo) e una volta presa la decisione strategica di liquidare l'impero, la Gran Bretagna si sente giustamente a disagio e decide di
bussare alla porta della CEE già nel 1958.
Gli obiettivi sono (e resteranno fino a oggi) solo due. Il primo è partecipare a un'area di libero scambio in rapida crescita, il secondo è impedire che gli europei prendano decisioni lesive degli interessi inglesi. La bandiera blu con le 12 stelle, l'Inno alla Gioia, il manifesto di Ventotene e i sogni a occhi aperti sull'euro lasceranno sempre perfettamente indifferenti gli inglesi, che del resto si immischieranno poco nelle vicende interne del continente.
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