Un anno fa a quest’epoca, improvvisamente, al mondo e ai mercati sembrò mancare la terra sotto i piedi. La svalutazione del renminbi, unita a una nuova
massiccia caduta della borsa di Shanghai, fece pensare non solo a una Cina fuori controllo, ma anche alle pesanti conseguenze globali che questa avrebbe presto causato. La
svalutazione del renminbi, si ragionava, sarebbe stata incontrollabile e avrebbe provocato una fuga di capitali tale da azzerare le pur cospicue riserve valutarie cinesi e da produrre, in un circolo vizioso, ulteriore svalutazione. Il crollo del renminbi avrebbe poi ridotto la capacità cinese di importare le automobili europee e la tecnologia americana, colpendo le nostre fragili economie e dando luogo a una recessione globale.
È passato un anno e agosto si profila tranquillo.
In questi dodici mesi la Cina ha ripreso il controllo della sua economia, della sua valuta e della sua borsa.
Il renminbi è più debole di un anno fa, ma non ci sono state fughe di capitali degne di nota e le riserve valutarie si sono stabilizzate.
Il Pil è cresciuto come da piano e la stabilità sociale, nonostante la continua riduzione di occupazione nel carbone e nella metallurgia, non appare minacciata.
Il resto del mondo ha continuato ad esportare in Cina e ha dovuto sopportare solo una modesta riduzione dei margini per effetto del renminbi più debole. In compenso i produttori europei di automobili e quelli americani di tecnologia hanno goduto di una ripresa del loro mercato interno. Le loro vendite complessive sono oggi più alte di un anno fa e i loro profitti anche.
L’economia globale è anche riuscita ad assorbire meglio del previsto la debolezza estrema dei corsi delle materie prime. Le ondate di fallimenti privati e sovrani che per mesi hanno preoccupato i mercati non ci sono state. L’indice del comparto energetico dello Standard and Poor’s perde solo il 6 per cento rispetto a un anno fa a quest’epoca, mentre il settore minerario segna un rialzo del 49 per cento.
(Nell'immagine: Peter Burgess. Beach Umbrella)