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Come uscire dalla crisi italiana ed europea

Regole, Stato, uguaglianza. La posta in gioco nella cultura della sinistra e nel nuovo capitalismo


Il tradimento del Trattato avviene una prima volta con il Regolamento n. 1466/1997 (G. Guarino, 2014), alias, Patto di stabilità e crescita che in realtà si occupa solo di stabilizzazione e lascia cadere il volet della crescita. E la storia si ripete 15 anni dopo al momento dell'approvazione del Fiscal Compact quando Monti aveva strappato alla Merkel la necessità di elaborare un Patto per la crescita. Se ne discute nelle riservate stanze della Commissione per circa due anni ma poi non se ne fa niente e nessuno protesta. Per questi motivi non capisco bene la critica alla politica di decentramento in Italia. Se poi, in questo decennio, anche il vero governo dell'economia è stato centralizzato a Bruxelles, è inutile prendersela con la debolezza del nostro governo centrale. Bisognerebbe essere più chiari su questo.

Nell'autunno 2010 il governo Berlusconi inciampa (va in minoranza) nell'approvazione del Rendiconto generale della Corte dei Conti. Mai accaduto prima. Viene salvato dal Presidente della Repubblica che gli dà un mese di tempo per rimediare. Nel 2011 Berlusconi si scredita ulteriormente e viene sostituito in via extraparlamentare da Napolitano che imprime una forte torsione presidenzialista al sistema istituzionale. Il Presidente Monti, per vocazione e per evitare il commissariamento del governo, approva senza alcuna resistenza tutte le misure dettate dal Consiglio europeo di puro stampo offertista e le fa approvare dalla sua maggioranza parlamentare di cui fa parte anche il PD.

Mario Monti e Silvio BerlusconiIl problema era e rimane quello di agire in coerenza con il processo di integrazione economica. Ma quale processo? Quello attuale che rischia di portarci alla disgregazione oppure quello storico-ideale, in buona sostanza, ripreso seppure parzialmente, anche dalle due versioni del Rapporto dei cinque presidenti che propongono l'Unione fiscale e quella politica? Ma sappiamo tutti che questa ipotesi incontra l'opposizione della maggioranza dei governi che siedono nel Consiglio europeo, guidati dalla Germania. Ma allora sono la Merkel o Schauble che si oppongono alla Federazione europea? No, sono gli altri paesi guidati dalla Francia che non la vogliono perché sono in preda a rigurgiti nazionalistici alimentati dai fallimenti parziali del progetto. Ricordo che c'è un documento del 1994 proprio del ministro delle finanze tedesco che contiene un progetto avanzato di maggiore integrazione verso una vera Unione federale che non ha avuto successo tra gli altri paesi membri. E la Germania è l'unica repubblica federale all'interno dell'Unione.

La riforma dei Trattati non è tuttora all'ordine del giorno ma sono disponibili altre opzioni che potrebbero essere messe in opera a breve termine sempre che si trovi l'accordo politico per farlo. Tornerò sul punto dopo.

Venendo brevemente alla terza parte: “Identità e orizzonti programmatici”, concordo su molte delle osservazioni e proposte di Biasco. Sull'identità della sinistra italiana ed europea il discorso sarebbe molto complicato se solo si volesse considerare la storia della sinistra nei principali paesi europei. In sintesi in Italia non c'è stata mai nell'era repubblicana una sinistra unitaria, coesa e maggioritaria, non c'è tuttora e anche la prospettiva non è incoraggiante per via della mutazione genetica del PD e se dovesse rimanere partito autocratico che si adegua alla c.d. “democrazia del pubblico atomizzato”. In Italia c'è stata una sinistra plurale come c'è stata a maggior ragione in Europa vista dall'alto. Questa è e sarà una grande difficoltà da superare per arrivare alla rifondazione di una sinistra italiana ed europea senza la quale sarà molto più difficile battere i partiti di centro e centro-destra. Ma io resto convinto che in una fase di forte crisi come quella che sta attraversando l'Unione, l'agenda può essere dettata dalle emergenze da affrontare: quella della stagnazione economica, della deflazione, dell'invecchiamento della popolazione e dell'immigrazione, della lotta al terrorismo internazionale e di una strategia mediterranea in grado di estendere al Mare Nostro il progetto di integrazione, crescita, benessere e pace che ha sperimentato l'Unione europea sino a qualche decennio fa.

Posto che l'identità oggi va costruita su un asse progettuale, programmatico e soprattutto culturale aperto alle contaminazioni, ossia, su una visione della società europea e mondiale e, soprattutto, sulla capacità di costruire coalizioni politiche e sociali in primo luogo a livello europeo, occorre superare il vuoto di proposte alternative di politiche economiche che ha caratterizzato l'ultimo decennio in cui al Washington Consensus si è sostituito quello di Berlino-Francoforte. A dieci anni dall'inizio della crisi mondiale, nell'Unione europea e nel Mediterraneo il rischio è ancora molto grande che alla svalutazione interna di salari e prezzi si aggiunga la svalutazione dell'euro – in parte avvenuta e benefica - in un contesto mondiale in cui rallenta la domanda mondiale anche per le misure protezionistiche che si profilano all'orizzonte. Occorre rovesciare il rapporto tra politica monetaria e politica fiscale. E' quest'ultima che deve dare il segno espansivo della politica economica e la politica monetaria deve essere accomodante anche perché, come stiamo sperimentando ormai da diversi anni, nell'eurozona il quantitative easing, arrivato in ritardo, ha dato tutto quello che poteva dare ma non funziona per rilanciare la domanda interna perché a tassi zero la politica monetaria risulta inefficace. E le imprese non incrementano la produzione e non assumono se non hanno ordini in portafoglio. Da qui la necessità di un grande programma di investimenti pubblici europeo e sub-centrale di cui il Piano Juncker è una pallida imitazione.
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