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Ribilanciamenti

Lavori estivi di manutenzione dell’economia globale


Ammettiamolo, fare il banchiere centrale è stato più facile in altri momenti. Premere sull'acceleratore come si è fatto in questi ultimi sette anni ha dato popolarità e ha permesso di essere visti come salvatori di un mondo precipitato nella crisi. Ma anche fare i frenatori, come capitò a Volcker quando nel giugno 1981 portò i tassi al 20 per cento per battere un'inflazione che aveva toccato il 14.5 per cento, ha fatto guadagnare una fama duratura di combattente contro le forze del caos.

Oggi che il mondo va abbastanza bene (e i mercati ancora meglio) fare il banchiere centrale sta diventando un mestiere difficile. Le possibilità di fare un passo falso sono molte, mentre la strada giusta è stretta, difficile e soprattutto ancora poco chiara.

Continuare a oltranza con politiche monetarie ultraespansive, giustificandosi con il fatto che l'inflazione è ancora modesta, rischia di provocare una bolla generalizzata degli asset finanziari e di alimentare un'euforia di cui si cominciano a vedere alcuni segnali. Dovesse l'inflazione alla fine arrivare, come i Tartari attesi per tutta la vita nel romanzo di Buzzati, lo scoppio della bolla renderebbe gli effetti di un rialzo ritardato dei tassi ancora più pesanti e potrebbe portare a una recessione.

Ma a una recessione si potrebbe arrivare anche per la via opposta, ovvero alzando i tassi e abbandonando il Quantitative easing troppo in fretta in omaggio, come avrebbe detto Keynes, a dottrine di economisti morti più di 40 anni fa, come il Phillips della famosa curva. In un mondo in cui il debito continua a salire e ha raggiunto il 327 per cento del Pil, sbagliare i calcoli e alzare i tassi un millimetro di troppo manderebbe la navicella spaziale dell'economia globale a perdersi nello spazio profondo.

Va bene, si potrebbe dire, alla fine è meglio non fare niente e limitarsi a piccoli aggiustamenti della politica monetaria distanziati nel tempo, come si è fatto finora. Muovendosi con prudenza nessuno si è fatto male, né le economie né i mercati. È vero, ma il tempo che passa lavora contro la linea del quasi immobilismo. In primo luogo, come abbiamo visto, perché i mercati lo leggono come il via libera per l'espansione senza limiti dei multipli azionari e per l'acquisto senza ritegno di bond a 100 anni di emittenti anche discutibili. In secondo luogo perché si avvicina sempre di più il momento in cui i modelli econometrici si metteranno a lampeggiare prima e a fare partire le sirene poco più tardi per segnalare l'esaurimento dell'output gap, ovvero della benzina che alimenta una crescita senza inflazione.

È la consapevolezza del tempo che lavora contro e del fatto che prima o poi bisognerà fare qualcosa (o frenare o buttare nel camino i modelli, dichiarandoli inadeguati al nostro nuovo mondo) a rendere i banchieri centrali così nervosi e sfuggenti.

Ecco allora la Yellen dichiarare che gli asset finanziari cominciano a essere cari, salvo poi, una settimana più tardi, lanciare una nuova gamba di rialzo sulle borse e interrompere sul nascere un ritracciamento dei bond adottando toni morbidi e rassicuranti sul futuro dei tassi d'interesse nella sua testimonianza davanti al Congresso.

(Nella foto: Le chiuse di Leonardo sull'Adda)
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