La manovra della BoJ è una reazione alla rivalutazione dello yen che rende insostenibile l'export di Tokio. E' uno sgambetto anche alla Germania, prigioniera dell'euro.Il Giappone non ci sta: non vuole pagare il costo della crisi finanziaria globale che sta mettendo fuori gioco la sua economia reale. In tutti questi anni ha fatto da cavia, praticando la deflazione monetaria interna per mantenere la competitività internazionale, ma è stato tutto inutile. Vediamo i numeri.
Fatto 100 nel 2005 il
PIL giapponese in termini reali, nel 2012 è stato pari a 103,1: è aumentato del 3,1%. In termini nominali invece si è ridotto del 6,1%: il livello generale dei prezzi è crollato da 100 a 91,7. Ma, quel che è peggio, la bilancia commerciale con l'estero ha capovolto il segno: dacché era tradizionalmente attiva, con un saldo positivo di ben +88 miliardi di dollari nel 2007, nel 2012 ha registrato un passivo di -96,9 miliardi di dollari. Un risultato inspiegabile se non si considera le variazioni del tasso di cambio: nonostante la riduzione dei prezzi interni, lo
yen si è rivalutato bruscamente sul dollaro.
Nel giugno del 2007, alle prime avvisaglie della crisi di Wall Street, ci volevano ben 122,64 yen per fare 1 dollaro. A febbraio del 2012, di yen ne bastavano appena 76,18: il dollaro valeva così appena il 62% rispetto a cinque anni prima. Di converso, lo yen era diventato più caro del 38%: una caduta dei dell'8,3% prezzi non era sufficiente.
Così si spiega il ribaltamento della bilancia commerciale giapponese: nonostante un calo dei prezzi dell'8%, trasferendo a favore dei consumatori tutto l'aumento della produttività, le ragioni di scambio avevano messo fuori mercato i prodotti giapponesi. Sempre considerando il 2005 come anno base, nel gennaio 2013 l'indice in volume delle esportazioni giapponesi si era ridotto da 100 a 76,6 mentre quello delle importazioni era salito da 100 a 106,1. Una situazione economicamente insostenibile, per via del nuovo cambio con il dollaro, che si è portato naturalmente appresso quello con lo yuan e quello con l'euro.
Il fatto è che anche i corsi delle azioni in
Giappone segnano il passo: doppia beffa, quindi, anche sotto il profilo finanziario. Ad ottobre del 2012, alla vigilia dell'annuncio delle misure straordinarie da parte del nuovo governo, l'
indice Nikkei era ancora a quota 58 rispetto al livello 100 del 2005, mentre Londra aveva già ampiamente recuperato le perdite registrando un 117,8. Allo stesso modo, in
Germania e negli
USA la Borsa era già tornata ai massimi del 2008: per i Giapponesi, un duplice smacco.
Una manovra monetaria, quella giapponese, che spiazza gli Usa e la Germania, al medesimo tempo, mettendo a segno un vantaggio competitivo con la
Cina che è difficilmente recuperabile: sempre per ragioni valutarie.
Il Giappone si è insinuato nello schema che vede lo yuan legato quasi indissolubilmente al dollaro, mentre l'euro, senza politica valutaria, subisce passivamente continue oscillazioni: quelle verso l'alto dipendenti dalla politica monetaria espansiva degli USA, e quelle verso il basso causate dai timori di una implosione dell'euro per via dei timori sulla tenuta dei debiti pubblici degli Stati periferici.
Scenario curioso, quindi:
il Giappone ha reagito violentemente alla svalutazione del dollaro, irrompendo sul terreno americano della creazione di liquidità internazionale, fin qui inviolato, ed è ripartito alla conquista del mercato cinese, spiazzando sia gli USA sia la Germania, mentre l'Europa subisce la dominanza politica ed economica di quest'ultima, con la Francia senza fiato, Londra isolata e Roma sotto il tallone. Ma la Germania stessa è paradossalmente prigioniera dell'euro e delle sue debolezze. Sullo scenario globale stavolta ognuno gioca per sé: la Storia non si ripete.