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La legge di stabilità per il 2014

Non c'è stata svolta e non c'era da aspettarsela perché da oltre sei mesi il governo delle larghe attese segue pedissequamente le prescrizioni della troika.

Il disegno di legge è stato puntualmente varato ieri per rispettare il termine previsto dalle disposizioni comunitarie sul coordinamento ex ante delle politiche di bilancio. Secondo molti commentatori, ci si aspettava una svolta ma questa non c'è stata. Il governo ci ha riproposto ineluttabilmente un mix di tagli alla spesa, nuove e/o maggiori imposte ed entrate da dismissioni per un totale di 11,6 miliardi.

Nell'insieme, c'è qualche barlume di equità, bastonate alle pensioni medio-alte ma niente efficienza allocativa. Non c'è stata svolta e non c'era da aspettarsela perché da oltre sei mesi il governo delle larghe attese segue pedissequamente le prescrizioni della troika: risanamento dei conti pubblici, rispetto del limite del 3% per il deficit a qualsiasi costo, attuazione delle riforme strutturali sciacquetta.
La prova l'abbiamo avuta la settimana scorsa quando il governo Letta ha approvato una manovrina tendente a recuperare un paio di decimali di punto di PIL entro il 2013 per stare entro il 3%. Ci riuscirà oppure è solo una misura di window dressing?

Quindi quelli che oggi dicono di essere rimasti delusi, nella migliore delle ipotesi, fanno un esercizio di ipocrisia. La sostanza è che non c'è stata svolta nel 2013 e non ci sarà neanche nel 2014. Lo ha detto chiaro e tondo il commissario Rehn, ferreo sostenitore e rappresentante della Troika, a conclusione dei lavori dell'Eurogruppo di lunedì scorso. Solo nel corso del 2014, si potranno creare spazi di alcuni decimali di punto per gli investimenti. È chiaro che con dosi da farmacista non si può rilanciare la crescita. E inoltre occorre ricordare che il 2014 è l'anno delle elezioni del Parlamento europeo che rischia di avere una composizione peggiore dell'attuale, che bisognerà rinnovare la Commissione e occorrerà del tempo. Avrà maggiore spazio e peso la BCE e quindi avanti con l'austerità.

Non ci sono spazi per il rilancio della domanda interna né dei consumi né degli investimenti. Non importa se siamo al 3° anno (2011-12-13) della seconda recessione dopo quella del 2009 di questa grande crisi. Non importa se l'euro a 1,35 sul dollaro non aiuta molto le nostre esportazioni. Benché amara e dolorosa, la cura o "l'espiazione della colpa" per l'alto debito pubblico accumulato va portata avanti. Non importa se analoga manovra del governo Monti dell'anno scorso non abbia sortito alcun effetto di rilancio della domanda interna. Mi riferisco all'aumento e/o rimodulazione delle detrazioni ai fini Irpef e altri incentivi marginali per le imprese come l'ACE.

Anche i sindacati si dicono delusi e non ricordano un altro precedente da loro proposto e ottenuto: quello dell'autunno 2006 quando si introdusse la tassazione agevolata dei c.d. salari di produttività. Anche in quel caso gli effetti di rilancio furono nulli se detti provvedimenti calano in una situazione di recessione che invece di essere contrastata con misure espansive viene curata con misure restrittive. È questa la gestione tragica delle politiche di bilancio dell'Italia da 50 anni a questa parte.

Le misure di equità e quelle di rilancio sono troppo limitate per avere un qualche effetto serio sulla ripresa. Si tratta di pannicelli caldi che finiscono con lo sprecare risorse. E lo stesso vale per il discorso farisaico sul cuneo fiscale. È alto, è vero, ma se lo tagliamo in termini sostanziali vengono meno le risorse per finanziare la spesa pubblica incomprimibile e le pensioni. Nessuno sembra ricordare che se tagliamo i contributi sociali, delle due l'una: o li fiscalizziamo oppure dobbiamo tagliare ancora le pensioni future - comunque bastonate anche in questa manovra.

Eppure anche la Confindustria che negli anni scorsi ha formulato proposte di più ampio respiro si attarda a riproporre questa ricetta quando tutti sappiamo che se si fa ripartire la crescita per le imprese è più facile trasferire in avanti e in grossa parte sui prezzi imposte dirette e indirette, mentre se restiamo in recessione-stagnazione imposte ed oneri sociali vengono trasferiti all'indietro sul capitale e sul lavoro attraverso i fallimenti e i licenziamenti. Proprio per questi motivi non trovo convincente la proposta apparentemente ragionevole di cui tutti si fanno promotori: ridurre le tasse sul lavoro e sulle imprese. Andrebbe bene per il medio-lungo termine nei limiti in cui si riuscisse a rilanciare la crescita sostenuta e sostenibile, si facesse aumentare la produttività e si recuperasse via via la massiccia evasione fiscale. Per il breve termine, secondo me, la ricetta giusta resta quella del rilancio degli investimenti pubblici e privati per creare nuovi posti di lavoro. Non è più accettabile che, a fronte della disoccupazione al 12,2%, il governo non dica niente circa i posti di lavoro che intende creare.

Per potere fare questo il governo Letta deve rompere gli indugi e chiedere a Bruxelles l'applicazione immediata della c.d. golden rule, ossia, la contabilizzazione degli investimenti pubblici fuori dal deficit corrente. Prima attendevamo l'esito delle elezioni tedesche, ora attendiamo di capire i termini del contratto di coalizione tra la Merkel e i socialdemocratici. Tutti auspichiamo che ne esca fuori una qualche attenuazione della politica dell'austerità ma l'Italia non può limitarsi ad attendere le decisioni lente dei tedeschi.

Siamo al terzo anno di recessione e i sintomi di ripresa per il 2014 sono flebili e restano legati soprattutto alla crescita degli altri paesi membri dell'Unione. Non ci servono leggi che ci stabilizzano la disoccupazione di massa nella recessione-stagnazione. Basta con il rinvio delle decisioni. Il tempo è scaduto da tempo.

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