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Rallentare, prego

Anche ai bull market fa bene un limite di velocità.

Gli utili delle società stanno uscendo buoni, anche se c’è qualche vistosa eccezione. Il dollaro debole comincia a dare una mano. È difficile non pensare, tuttavia, che utili meno brillanti non sarebbero di ostacolo al rialzo delle borse. Quando i soldi sono per strada, prima li si va a raccogliere e poi, eventualmente, ci si chiede se era giusto che fossero lì.

C’è poi l’idea che i dati negativi sono in realtà positivi, perché allontanano il ritorno della polizia per le strade. Ma non ci si ferma qui e ci si convince a poco a poco che la fase della Grande Libertà durerà anche dopo che i dati saranno diventati stabilmente positivi perché i governi e la Fed, questa volta, vogliono con tutto il cuore l’inflazione. E poi, vedrete, si dirà che l’inflazione giova al fatturato delle società e alla loro capacità di alzare i prezzi e tenere alti i margini.

Curb Your EnthusiasmPerché, allora, auspicare un limite di velocità nel rialzo e perché non correre semplicemente a raccogliere i soldi per la strada senza farsi troppi problemi? Per quattro ragioni.

La prima è che un rialzo troppo veloce imbarazzerebbe le banche centrali, che si vedrebbero ogni tanto costrette a fare tintinnare le sciabole (senza peraltro usarle) per creare volatilità (e sappiamo che la volatilità produce più perdite che guadagni nella maggior parte dei portafogli). La Fed potrebbe ad esempio, come invoca Bill Gross, ricorrere a misure macroprudenziali come l’innalzamento del deposito per gli acquisti di azioni a margine (fermo da decenni al 50 per cento). Sarebbe una misura perfettamente aggirabile attraverso l’uso dei derivati, ma il valore simbolico del gesto verrebbe compreso da tutti e rallenterebbe per qualche tempo il rialzo.

La seconda è che un rialzo disordinato porta con sé un’allocazione subottimale dei capitali, un modo cortese per dire che si buttano al vento tanti soldi correndo dietro ai titoli che salgono solo perché stanno salendo (e non per i loro eventuali meriti specifici). Richard Koo sostiene da anni che la bolla di Internet indusse le grandi imprese tedesche a strapagare le società tecnologiche che acquistavano in America e che già due anni più tardi non valevano più niente. Il buco che si produsse allora nei loro bilanci indusse la Germania a premere sulla Bce affinché mantenesse tassi anormalmente bassi. Il risultato fu che le banche tedesche, in cerca di rendimento, investirono aggressivamente in titoli italiani, spagnoli e greci, creando un surplus di capitali che fu a sua volta sperperato. Ne seguì, nel 2011, il ritiro tedesco dal Mediterraneo e il crollo delle nostre economie, ormai periferiche.
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