Il risultato di questa divergenza è già evidente nell'andamento dell'inflazione, stabile sui minimi in Europa e in decisa ripresa in America. L'inizio di un ciclo di rialzo dei tassi, negli Stati Uniti, è solo questione di tempo (da 6 a 12 mesi). In Europa, come in Giappone, avremo tassi a zero a perdita d'occhio.
In un mondo tanto affamato di rendimento da comprarsi i bond appena emessi dalla Giamaica (un paese in default 14 volte negli ultimi trent'anni), un differenziale di tassi tra Europa e America in costante crescita da qui al 2017 non passerà inosservato.
Ci sono poi altri tre fattori che dovrebbero sostenere il dollaro rispetto all'euro. Il primo è la possibilità concreta che l'inizio di un ciclo di rialzo dei tassi metta sotto pressione gli spread sul debito italiano e francese. Il secondo è che la Bce, per prevenire il rialzo degli spread, vari a fine anno un programma di Quantitative easing.
Il terzo fattore, che si tende spesso a dimenticare, è che il dollaro è ormai una petrovaluta. Nell'oceano dell'economia americana il vasto mare dei fossili non convenzionali che stanno entrando in produzione non è visibile come meriterebbe, ma ha già creato due milioni di posti di lavoro dopo la Grande Recessione e altrettanti ne genererà di qui a fine decennio. Le importazioni americane di fossili sono in caduta libera e il disavanzo delle partite correnti va nella stessa direzione. Era sopra il 7 per cento nel decennio scorso, è stato del 2.4 nel 2013 e scenderà all'1.4 fra due anni.
(Nella foto: Anche l’Unione Sovietica partecipò ai lavori di Bretton Woods)
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