Abbiamo l’impressione che possano avere ragione tutti quanti. Il ciclo economico è sovraimpresso al ciclo del credito. Il
deleveraging e gli spiriti animali depressi depotenziano ma, attenzione, non annullano il ciclo economico.
Se questo è vero, ne discendono due conseguenze rilevanti.
1) Il ciclo c’è. Non è forte, ma c’è. Senza grande clamore l’America è passata dall’altissima disoccupazione del 2009 alla piena occupazione di fine 2015.
Anche l’inflazione c’è. Non è forte ma c’è. Togliendo il petrolio il Cpi era all’1.5 un anno fa ed è all’1.9 oggi. Se la Fed più colomba dei suoi 102 anni di storia si appresta ad alzare i tassi è perché riconosce che il ciclo c’è. I margini delle imprese, assediati dal costo del lavoro (per ora più per un aumento del numero di dipendenti che per un aumento delle retribuzioni) e dal costo del denaro che fra poco inizierà a risalire, sono per la prima volta sotto pressione. Il trasferimento di reddito dai salari ai profitti è finito e sta per iniziare il movimento in senso contrario.
2) Il ciclo c’è ma è iscritto in un
ciclo del credito che lo depotenzia. La montagna di soldi che le banche parcheggiano nelle banche centrali a tasso zero verrà prelevata poco e lentamente. L’economia non si surriscalderà. Qualsiasi accelerazione americana verrà rimangiata sul nascere dal
dollaro più forte. I bond saranno da vendere ma non crolleranno e avranno anzi periodici violenti ritorni di fiamma al primo segno di rallentamento della crescita. Le azioni americane non trarranno particolari benefici dal maturare ulteriore del ciclo.
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