Detto questo, la realtà dei bilanci societari va considerata nella sua complessità. È vero, come sottolinea Druckenmiller, che il
debito corporate in America è passato dai 3.5 trilioni del 2007 ai 7 trilioni attuali, ma è altrettanto vero, aggiungiamo noi, che nel frattempo gran parte delle società ha accumulato imponenti flussi di cassa positivi. È frequente, soprattutto tra le multinazionali, un grande accumulo di cash fuori dagli Stati Uniti e, nello stesso momento, il ricorso crescente al debito sul mercato domestico per il riacquisto di azioni proprie.
Quanto alle
turbolenze del mondo obbligazionario, era ragionevole prevedere che prima o poi la volatilità sarebbe aumentata, anche se è bizzarro che l’aumento dei rendimenti abbia luogo proprio in un momento in cui la
crescita globale si rivela più debole del previsto. In un certo senso questo rappresenta un successo per i policymaker, che hanno saputo creare un minimo di aspettativa di inflazione. È probabile che l’aberrazione dei tassi negativi in Europa avrà termine abbastanza presto e nel modo migliore per l’economia, grazie cioè a un modesto aumento dell’inflazione e non grazie a un aumento dei tassi reali. I bond avranno a soffrirne, ma in modo molto limitato.
Operativamente, non ci sembra arrivato il momento di aggiustare aggressivamente i portafogli. Quelle che vanno aggiustate sono semmai le attese di performance in un mondo in cui i bond si avviano alla conclusione del loro rialzo secolare e in cui le azioni manterranno l’importante supporto di utili in crescita ma dovranno pagare con la fine dell’espansione dei multipli la maggiore volatilità che si profila all’orizzonte. Quanto al dollaro, non pensiamo che l’America abbia bisogno di un deprezzamento marcato del dollaro per ridare spinta alla sua economia. D’altra parte, non appena la spinta avrà sortito i suoi effetti, il dollaro tornerà ad essere la valuta d’elezione per la forza strutturale della sua economia.
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