Quanto alla domanda su
che senso abbia comprare un bond a cento anni a 163, la risposta è questa. Se i rendimenti dovessero calare di un altro punto e, nel caso del nostro bond, andare quindi a zero, l'Austria 2117 dovrebbe valere 306. Se dovessero calare di due punti, il nostro bond andrebbe a 621. Se poi, alla prossima recessione, dovessimo adottare quei tassi profondamente negativi che stanno tornando di moda nel dibattito tra banchieri centrali, per vedere l'Austria quotare a 1385 (quasi 14 volte il prezzo di emissione) basterebbe un rendimento a scadenza del meno due per cento.
Vertigini? Certo. E a fare barcollare non è solo l'idea che un bond comprato oggi a 163 a tassi quasi offensivamente bassi possa andare a quattro cifre alla prossima recessione, ma anche che un bond eventualmente comprato a 1385 non solo possa, ma debba inesorabilmente concludere la sua esistenza a 100 nel prossimo secolo, quando, di quel 100, molto sarà stato eroso dall'inflazione.
Il
tema dei tassi profondamente negativi era stato pensato negli anni scorsi per l'Europa. In America era stato preso in considerazione dalla Fed, ma fu presto abbandonato per la forte levata di scudi del mondo politico e dell'industria finanziaria. L'annuncio della normalizzazione globale della politica monetaria nel 2016-17 sembrò chiudere per sempre il dibattito. I tassi, si pensava, sarebbero da lì in avanti solo saliti. L'obiettivo dichiarato era di riportarli (e con loro l'inflazione) a un livello abbastanza alto da garantire, in caso di recessione, di non scendere più a zero, o di rimanerci al massimo per un breve periodo.
Per spiegare perché oggi si parli di nuovo di tassi negativi profondi non basta il
rallentamento della crescita globale, che c'è sicuramente ma non è così drammatico. Se se ne parla è per due ragioni.
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