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Trent'anni dopo

Miti e realtà sui paesi emergenti


Fu a questo punto che ebbe origine la mitizzazione degli emergenti, promossi in blocco a paesi stabili quasi come noi e con rendimenti sugli investimenti e tassi di crescita largamente superiori. Si confezionò la narrazione dei Brics, dei Next Eleven, dei Civets, acronimi e sigle dietro cui si presentavano liste sempre più lunghe di paesi che un giorno, tra il 2030 e il 2050, avrebbero ridotto l'Occidente a metà e poi un terzo del Pil globale.

La finanza si adeguò in fretta e per anni bastò avere un pizzico di coraggio per godere con gli emergenti di rendimenti obbligazionari e azionari irresistibili. La crisi asiatica del 1997-98, allargatasi presto alla Russia e all'America Latina, fu, vista oggi, una scossa di assestamento dovuta più a rigurgiti di cattive abitudini del passato (eccessi di investimenti e conseguenti disavanzi delle partite correnti) e a un'ancora scarsa esperienza nel gestire i flussi improvvisi di capitali esteri in entrata e in uscita che a una crisi del nuovo modello.

Il mondo emergente, del resto, superò indenne la crisi del 2000-2001 e quella del 2008. L'Africa, ad esempio, continuò a crescere nel 2008 e nel 2009, trainata dalla Cina e dalle sue aggressive misure di sostegno alla domanda globale. Fu in quel periodo che gli emergenti si conquistarono sul campo il titolo di investimento perfettamente rispettabile che avrebbe dovuto essere presente in qualsiasi portafoglio, vedove e orfani inclusi.

Ma fu lì anche l'apogeo, il punto massimo del loro successo e l'inizio del loro declino relativo.

Che cosa resta, trent'anni dopo, degli emergenti come nuovo Eldorado? Il bilancio ha luci e ombre. Le luci sono più delle ombre, ma sono oggi fioche e confuse. Le prospettive sono discrete, ma non esaltanti.

Alcune conquiste sono irreversibili. Cina e Corea del Sud non sono più da considerare paesi emergenti. Fame e malnutrizione sono praticamente scomparse da tutto il pianeta. Centinaia di milioni di persone che prima vivevano in povertà fanno oggi parte dei ceti medi. L'apparato produttivo è diversificato e talvolta sofisticato. La domanda interna è cresciuta al punto da rendere molti paesi meno dipendenti dal ciclo globale. La capacità di autogoverno fiscale e monetario è molto cresciuta. Il processo di maturazione è evidente.

Evidenti sono però anche i limiti del modello di sviluppo che ci ha portati fin qui. C'è stata una doppia dipendenza, dal debito e dalla Cina (a sua volta dipendente dal debito). In questo non c'è nulla di grave. Crescere a debito non è obbligatorio, ma è stato storicamente molto frequente. I problemi nascono quando il rendimento marginale dei capitali presi in prestito si normalizza e scende. A quel punto occorre sempre più debito per creare un'unità di Pil. Finché il debito è poco questo non è un problema particolarmente grave, ma quando assume proporzioni simili o addirittura superiori a quelle dei paesi di antica industrializzazione le cose si complicano.
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