Lo sviluppo sostenibile è del resto una delle due anime del pensiero liberale o sviluppista contemporaneo, l'altra, per comodità, è quella di Trump, Putin o Xi Jinping. Entrambe le anime sono figlie dell'illuminismo e sono faustiane, perché, direbbe Latouche, mettono l'accento sullo sviluppo all'infinito, che non deve assolutamente essere interrotto. Nel primo caso, in economie mature che sono diventate economie di sostituzione, si rottamano auto, lavatrici, case non coibentate, l'industria del carbone e del petrolio, le centrali termoelettriche, parte della chimica e reti di comunicazione per sostituirle subito con prodotti, case e industrie nuove o rinnovate. E già oggi sappiamo che fra quindici anni si scoprirà che lo smaltimento delle batterie e del fotovoltaico inquina e si proporrà l'idrogeno, con rottamazione veloce dell'elettrico. E così via.
L'altro filone sviluppista, quello alla Trump, ritiene che lo sviluppo, anche se inquina, non vada troppo indirizzato perché a un certo punto trova da solo la strada per autocorreggersi. Il Texas, stato repubblicano e petrolifero per eccellenza, si è diversificato da solo nelle rinnovabili senza bisogno di piani trentennali all'europea e ora produce a buon mercato ed esporta ogni tipo di energia. Quanto alla Cina, Gramsci diceva che la psicanalisi comincia da un certo livello di reddito in su e lo stesso si può dire oggi dell'ecologia. Da un certo livello di reddito la priorità passa dal riempire lo stomaco al non respirare carbone e se la Cina sta finalmente trovando la forza di ridurre la sua dipendenza dal carbone è perché ha raggiunto un livello di sviluppo e di ricchezza per cui può offrire un'alternativa alle decine di milioni di famiglie dello Shanxi e dello Shaanxi che vivono intorno alla produzione mineraria. È difficile proporre al Congo di crescere con l'intelligenza artificiale, è più facile aprire voragini nella foresta equatoriale per estrarre il cobalto per le batterie al litio che ci fanno sentire buoni.
Insomma, lo sviluppo sostenibile è più vicino a quello tradizionale che all'ambientalismo anni Settanta, quando di fronte alla crisi energetica si teorizzava la fine dell'automobile e non la sua trasformazione. E il Green Deal europeo si inserisce perfettamente nella grande tendenza verso reflazione e deglobalizzazione a tappe sempre più forzate che vedremo montare nei prossimi anni con politiche monetarie e fiscali ancora più espansive di quelle che già conosciamo. Un quadro, come sappiamo, strutturalmente positivo per le borse.
Detto questo, rimane la questione di fondo, quella esistenziale. Siamo davvero in pericolo? Mancano davvero otto anni, come dice Greta, al punto di non ritorno? La questione è molto complessa e proveremo a fornire qualche spunto di riflessione la prossima settimana insieme a idee sulla politica economica, sul Green Deal e sul portafoglio di investimenti da preparare per i movimentati tempi nuovi che ci attendono.
Un'ultima osservazione sul
coronavirus, il market mover di questi giorni. È vero, come stanno scrivendo in molti, che le epidemie degli ultimi decenni sono sempre rimaste circoscritte. E' però anche vero che ogni tanto i virus mutano lungo il cammino e, per fortuna molto raramente, fanno danni gravi. Senza andare troppo indietro, l'influenza del 1919-20 fece dai 50 ai 100 milioni di morti in ogni angolo del pianeta. La popolazione umana era allora di 1.8 miliardi, oggi è di 7.8 e i conti si fanno in fretta. Mettere la mascherina al viso, quindi, e includere il rischio di coda nel disegno dei portafogli, ma rimanere costruttivi sullo scenario di fondo.
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