Prezzare una guerra, per i mercati, non è facile, specialmente se il conflitto coglie di sorpresa ed è alle sue battute iniziali. L'attacco giapponese a Pearl Harbor del 7 dicembre 1941 e
l'entrata in guerra degli Stati Uniti costarono alla borsa americana un quarto della sua capitalizzazione nei tre mesi successivi. La perdita fu poi recuperata rapidamente a partire dalla primavera del 1942.
La
guerra di Corea, che vide coinvolti Stati Uniti, Cina e Unione Sovietica in un clima in cui l'uso dell'atomica fu preso seriamente in considerazione, la borsa americana, a parte una breve discesa iniziale del 15 per cento, accompagnò i tre anni della guerra (1950-53) con un solido rialzo.
Nei
tredici giorni della crisi dei missili dell'ottobre 1962, il Dow Jones, di fronte al rischio di un conflitto atomico globale che sembrava dietro l'angolo,
perse solo il 5 per cento. Certo, di fronte alla possibilità della fine del mondo può non avere senso vendere o mettersi al ribasso, ma non fu questo il motivo principale della
tenuta dei mercati. Le azioni erano detenute dai fondi pensione, che ragionavano sui tempi lunghi, e non c'erano i derivati ad amplificare la volatilità. Le valutazioni, d'altra parte, erano molto compresse e la ricchezza finanziaria aveva un peso relativamente modesto. Anche allora, ovviamente, nessuno amava la guerra, ma c'era con questa una maggiore dimestichezza rispetto a oggi, o per averla vissuta personalmente o, nei più giovani, per essere cresciuti in mezzo a frequenti esercitazioni in cui veniva simulato un attacco nucleare.
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