Questa scelta è stata poco prudente perché
una pandemia lascia intatto l'apparato produttivo e produce solo lockdown temporanei, mentre
una guerra fa danni strutturali irreversibili. Il risultato è che ora, mentre la politica fiscale inizia ad occuparsi della guerra rimanendo in prospettiva espansiva, la politica monetaria, dove può, si dedica al contenimento dell'inflazione. I governi vanno da una parte e le banche centrali vanno dall'altra, come è corretto fare in tempo di pace. (E non è nemmeno sempre corretto, come dimostra l'inutile e dannoso tentativo della Fed, nel 2018, di bilanciare con tassi più alti i tagli di imposte decisi dal Congresso).
Se il
conflitto e le
sanzioni dovessero quindi continuare, quanto a lungo potrebbe la Fed mantenere questa linea di lotta all'inflazione come priorità, costi quel che costi? Si è mai vista, in tempo di guerra, una banca centrale provocare una recessione per tenere bassa l'inflazione?
Non dimentichiamo che l'appetito per la spesa da parte dei governi continuerà a crescere. Ai costi pesanti della transizione energetica si andranno ora ad aggiungere quelli per il riarmo e per i sussidi ai consumatori di energia e materie prime. E qui parliamo di costi molto più strutturali e permanenti di quelli di un lockdown di poche settimane.
La Fed alzerà quindi i tassi solo finché l'economia e il mercato del lavoro americani rimarranno surriscaldati e finché le borse resteranno su livelli particolarmente elevati. È però difficile credere che arriverà al punto da provocare una recessione, anche se questo è quello che pensa il mercato con la curva dei tassi che tende all'inversione.
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