In un tempo non così lontano, diciamo fino a 15 anni fa, quando si osservavano le
politiche economiche di molti paesi in difficoltà di quello che per un certo periodo è stato chiamato il
Sud del mondo, si notavano alcune costanti che erano regolarmente oggetto di severa riprovazione da parte degli economisti occidentali allineati su quello che si usava definire il
Washington Consensus.
Tra queste costanti la più frequente era la
monetizzazione del disavanzo pubblico da parte della banca centrale. Classi politiche deboli e spesso corrotte non avevano né la volontà né la forza di aumentare le tasse e tantomeno quella di ridurre la spesa pubblica. Indebitarsi diventava quindi la via d'uscita. Lo si faceva con l'estero negli anni buoni, quelli in cui il mercato obbligazionario affamato di rendimento comprava di tutto. Negli altri anni si provava a emettere debito sul mercato interno, che però era piccolo anche perché chi aveva soldi li teneva all'estero. Alla fine si ricorreva alla banca centrale che creava moneta per sottoscrivere i titoli pubblici. Ovviamente questo creava inflazione e, nel tempo, svalutazione del cambio.
La seconda costante che si riscontrava in questi paesi e che veniva condannata ancora più risolutamente dal nostro consenso (e in particolare dal Fondo Monetario) era rappresentata dagli ingenti
sussidi che i governi concedevano per tenere bloccato il prezzo del pane, della benzina, del gas e della luce. Chi ogni tanto decideva di sbloccare i prezzi, in genere su pressione del Fondo Monetario, rischiava seriamente di essere travolto da rivolte popolari, come accadde tra l'altro con le primavere arabe. Non importa, dicevamo noi, dovete farlo lo stesso. Il populismo dei sussidi impedisce la necessaria distruzione di domanda e porta solo sprechi e dissesto delle finanze pubbliche.
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