Facebook Pixel
Milano 10:28
33.952,13 +0,03%
Nasdaq 18-mar
17.985,01 0,00%
Dow Jones 18-mar
38.790,43 +0,20%
Londra 10:28
7.715,48 -0,09%
Francoforte 10:28
17.959,7 +0,15%

Quella voce che viene da Davos



"La forma di disuguaglianza più pericolosa ha cambiato la sua dislocazione. Oggi non va più ricercata fra i paesi del G7 o al limite del G20 e tutti gli altri, o tra il Nord ed il Sud del nostro pianeta. Al contrario, proprio mentre il boom economico delle Nazioni emergenti va lentamente ma progressivamente riducendo questo gap che possiamo definire territoriale, è all'interno di ogni singola società che il divario di condizione fra la sempre più ridotta componente benestante della popolazione e gli altri sta assumendo dimensioni in continua crescita."

Questa analisi estremamente significativa e nel contempo di immediato impatto nella sua semplicità non proviene da qualche sociologo particolarmente creativo o da un politico un po' estremista che sogna rivoluzioni mai realizzate, ma dal cosiddetto "uomo di Davos", quel soggetto di professione banchiere, finanziere o comunque V.I.P., che è solito riunirsi a fine gennaio di ogni anno nell'amena località della Svizzera per dibattere assieme ai suoi sodali sui destini del mondo e sulle ricette da adottare per far sì che tutto vada nella direzione da lui auspicata, quella della salvaguardia dei suoi interessi e del mantenimento e consolidamento della sua posizione economica e sociale.

Nel sondaggio realizzato fra i partecipanti all'ultimo meeting è emerso che la preoccupazione più condivisa riguarda i rischi connessi all'instabilità sociale; la paura non scaturisce tanto dalle continue guerre, dalla accresciuta frequenza di eventi naturali e ambientali catastrofici, da crisi finanziarie sempre più difficili da prevenire e controllare ma dai timori di incombente malcontento popolare i cui esiti potrebbero essere imprevedibili. Non sembra che queste conclusioni abbiano suscitato nel nostro Paese particolare attenzione o riflessioni degne di nota.

Il Ministro Tremonti, che in quel consesso rappresentava l'Italia, ne ha parlato in qualche pubblico dibattito, ma più che altro ha richiamato alcune sue vecchie tesi, ponendo l'accento sui guasti provocati da un processo di globalizzazione economica troppo rapido e senza regole e controlli, che nei suoi sviluppi ha causato più problemi che benefici.

Qualche politico ha evidenziato il rapporto conflittuale fra la comparsa dei nuovi protagonisti nel mercato globale e l'introduzione di diritti socio-economici di base, constatando come il processo reale sia andato nella direzione esattamente opposta, non estendendo ai nuovi soggetti le conquiste civili e sindacali acquisite nelle società più evolute ma addirittura rimettendole in discussione in quegli stessi Stati dove erano patrimonio collettivo da anni. Impossibile un matrimonio, o almeno una civile convivenza, fra globalizzazione e democrazia sostanziale?

Ha sicuramente ragione Tremonti quando afferma che uno dei grandi mali della nostra epoca deriva dal crescente ed incontrastato predominio dell'economia di carta, quella dei derivati e degli strumenti strutturati, sulla produzione e sull'economia reale. Il problema non va posto solo in termini di volumi assoluti (ogni dollaro di prodotto alimenta a vario titolo un movimento di flussi finanziari pari a poco meno di 30 volte), ma soprattutto di regole: quelle esistenti sono poche, non incisive e spesso disattese. Il salvataggio del sistema bancario e finanziario si è reso necessario per evitare che il baratro di una recessione prolungata e generalizzata mettesse in ginocchio le economie dei Paesi occidentali.

Altri Editoriali
```