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Paesi-fabbrica, Paesi-sceicchi e l’insostenibile accumulazione finanziaria


Due crisi finanziarie a confronto, quella del ’29 e quella iniziata nel 2008: determinate da una insufficienza della domanda globale, in entrambi i casi. Allora mancò quella europea, ridotta per via del drenaggio delle risorse destinate al pagamento dei debiti di guerra, stavolta quella cinese e tedesca: sistemi produttivi che vendono all’estero più di quanto non comprino. In Europa, il venir meno delle monete nazionali ha impedito il ricorrente riequilibrio valutario, creando una bolla di debito da parte dei Paesi più deboli. Di converso, il reimpiego dei rispettivi attivi commerciali, negli Usa e nel resto dell’Europa meridionale e orientale, ha inondato il sistema finanziario di risorse impiegati per finalità non produttive, principalmente in iniziative immobiliari: mutui sub-prime statunitensi cartolarizzati e rivenduti in tutto il mondo, banche creditrici verso i costruttori in Irlanda e Spagna.

Il sistema finanziario internazionale ha prima dovuto assorbire lo shock delle perdite sul mercato statunitense, ora quelle del mercato europeo. Non è finita, visto che anche in Cina c’è una quota estremamente ampia di profitti reinvestita in immobili, che rimangono invenduti per via dell’alto costo e della riduzione progressiva del valore dei risparmi accumulati, remunerati ad un tasso inferiore all’inflazione. La domanda cinese è strutturalmente scarsa, sia sul piano internazionale sia su quello interno, e così un reimpiego stabile del surplus sull’estero e sull’interno è sempre più problematico.

La crisi della finanza pubblica greca è un caso a sé: sarebbe scoppiata comunque. Il maggior debito italiano, determinato dalla caduta del pil e dalle manovre correttive, ci ha riportato al ’92: che siano risaliti gli spread non è casuale, mancando una Banca centrale europea che faccia da calmiere. E’ un errore concentrarsi sulla crisi delle finanze pubbliche europee ritenendo che sia determinata da fenomeni endogeni: sono in difficoltà per via del disequilibrio nell’economia reale internazionale.

Ci sono aspetti di gran lunga più interessanti, che emergono quando si mettono a raffronto le crisi petrolifere del ’73 e dell’80 e quella del 2008, sotto il profilo delle alterazioni delle ragioni di scambio che hanno determinato: in modo improvviso le prime, con un aumento dei prezzi al consumo per via dei maggiori costi energetici, in modo progressivo la seconda, con una diminuzione dei prezzi al consumo sui mercati occidentali per via dei prodotti a costi del lavoro più bassi, importati dai Paesi di nuova industrializzazione. Inflazione in un caso, deflazione nell’altro, come impatto sui prezzi. Ma, sotto il profilo del commercio internazionale, in entrambi i casi si è verificato un accumulo di cospicui avanzi finanziari da parte dei Paesi eccedentari: produttori di petrolio e Paesi-fabbrica. Di certo i Paesi-sceicchi non compravano merci e servizi per un ammontare equivalente alle proprie esportazioni, così come i Paesi-fabbrica: accumulano risorse finanziarie per un ammontare corrispondente al vuoto di domanda che determinano.

Con le crisi petrolifere variò definitivamente la ragione di scambio tra materie prime e manufatti, determinando una competizione nell’ambito dell’occidente che si spostò sul versante della redistribuzione dei maggiori costi energetici, tra lavoro e profitto. La globalizzazione produttiva ha agito in modo analogo: sono variate definitivamente le ragioni di scambio tra prodotti occidentali e prodotti importati, con una competizione affrontata attraverso una riduzione dei costi del lavoro, a profitti invariati.

La crisi del 2007 ora si è spostata sul versante del modello sociale: l’Occidente non sarebbe competitivo per via dei maggiori costi determinati da un assetto di diritti e di protezioni dei lavoratori incompatibile con la struttura dei costi produttivi nei Paesi emergenti. La soluzione è solo apparentemente logica. Se il problema degli squilibri deriva dalla carenza di domanda adeguata da parte dei Paesi-fabbrica, in cui si produce a prezzi più bassi, i costi dello Stato sociale sono estremamente esigui, e la maggiore efficienza determina una eccedenza finanziaria sia sul piano internazionale sia su quello interno, i minori salari e la disoccupazione nei Paesi-inefficienti-e-costosi farà diminuire ulteriormente la domanda globale.

In questi giorni sono cambiate imrovvisamente le parole d’ordine: si parla di Growth Compact, di Eurobill, di Spending Rewiew e di accorpamento delle province, dopo mesi in cui non si è parlato d’altro che di Fiscal Compact, Eurobonds, lotta all’evasione, riforma delle pensioni e dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Curiamo gli effetti della crisi e non le sue cause: guardiamo il dito che indica la luna.
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