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Parmalat, così vai via...

Dobbiamo piangere sul latte versato

E' una storia che fa davvero piangere, quella di Parmalat. Una azienda di Parma, diventata leader nel suo settore, e poi travolta dai debiti con le banche che l'hanno spolpata, approfittando delle debolezze della proprietà, mentre i sottoscrittori delle sue obbligazioni rimanevano in braghe di tela.

Quella di Parmalat è la metafora di un Paese, l'Italia, che nel dopoguerra è cresciuto in modo straordinario, ma che poi è rimasto schiacciato dalla assenza di riferimenti istituzionali forti. Basta vedere, sempre a Parma, la vicenda completamente diversa di Barilla, famiglia di pastai, che ha mantenuto fermissima la distanza siderale dalle operazioni disinvolte e dal mercato finanziario. Così i Ferrero, di Alba, altra famiglia che non si è mai lasciata incantare dalle sirene delle quotazioni, e dei bond venduti ai risparmiatori per operazioni spericolate.

A ben poco sono servite le vittorie della gestione commissariale di Parmalat travolta dagli scandali, nei tribunali di mezzo mondo, per recuperare il mal tolto attraverso tante operazioni finanziarie truffaldine ai suoi danni. Il tesoretto recuperato, rimasto inoperoso con la gestione industriale che procedeva a rilento, ha attirato le mire di un'altra grandissima impresa familiare, stavolta francese, che si è comprata sul mercato la Parmalat. Essendo quotata in Borsa, era contendibile, ed è stata comprata.

In una logica strettamente industriale, commerciale e finanziaria, Parmalat era una splendida preda: ma solo per chi, naturalmente, aveva spalle forti, visione, e voglia di fare. Nessuno in Italia si è sognato di fare altrettanto. Tutti senza ambizioni, senza voglia di rischiare, senza vere banche d'investimento pronte a sostenere, come imprenditori di capitale, una nuova sfida.

Ora, la proprietà francese, Lactalis, ha previsto di delistare Parmalat dalla Borsa: ha una quota di capitale talmente alta che la quotazione non serve a nulla. Sarà divisionalizzata, praticamente scomparirà come società a se stante.

Ecco la lezione da apprendere: non si può andare in Borsa solo per fare fessi gli azionisti di minoranza e per dare un bidone agli ignari obbligazionisti, con le banche complici che ci fanno pure la cresta. Il mercato non perdona: servono istituzioni di vigilanza forti, e soprattutto istituzioni finanziarie capaci di essere partner leali.

Il capitalismo familiare rimane una risorsa fondamentale, ma solo finché mantiene una assoluta rettitudine. Chi si affaccia sul mercato solo per mettere toppe, viene travolto. Questa è la storia di Parmalat: quella di un capitalismo familiare che ha perso la testa, che si è lasciato andare per il troppo successo, e che ha incontrato sulla sua strada altrettanti partner che hanno approfittato senza scrupoli di tanta inesperienza.

Il capitalismo familiare è una eccezione. Il capitalismo di Stato è un ricordo. In questa transizione, ormai trentennale, della grande industria italiana rimane ben poco: tutta venduta, o smantellata.

Senza grandi banche capaci di essere partner di capitale, e senza fondi di investimento pronti ad investire, non si cresce: si vende, e si svende.

Dobbiamo piangere sul latte versato.

Parmalat, così vai via...
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