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C’è lavoro per tutti

Lavoro vero, non reddito di cittadinanza

Di fronte alla disoccupazione, non solo quella giovanile che da tempo raggiunge percentuali da capogiro, si avanza ormai una perfida illusione: quella di garantire a tutti un reddito di cittadinanza, di inclusione. Il modello di welfare farebbe un passo in avanti decisivo, attribuendo allo Stato la funzione di redistribuire il reddito attraverso la tassazione. Si preleva con le imposte a chi ha di più, in termini di guadagno o di ricchezza, per dare a chi non ha affatto. Finora si è sostenuto che una idea del genere fosse da scartare, perché molti si accontenterebbero di poco, di quanto serve per vivere, piuttosto che cercarsi un lavoro. Meglio vivere di assistenza che faticare otto e più ore al giorno.

I sistemi di welfare si erano inizialmente concentrati sul sussidio di breve periodo, oltre il quale la sovvenzione cessa: era il modello della Social Security impostato negli anni Trenta. In Italia c’era la Cassa integrazione guadagni straordinaria e poi l’indennità di mobilità. La evoluzione è stata la flexycurity: un intervento più attivo del welfare tradizionale, che si occupa di cercare una nuova occupazione per chi ha perso il lavoro, del suo retraining professionale, sospendendo il sostegno a chi poi non accetta il nuovo impiego.

Siamo, ormai da qualche anno, in una situazione ancora più critica. Per un verso la globalizzazione ha spostato molte produzioni in aree dove il lavoro costa meno, in cui le normative di protezione ambientale sono meno rigorose e dove si pagano meno tasse. La competizione si basa sul dumping salariale, fiscale ed ambientale. C’è una seconda questione, rappresentata dalle innovazioni tecnologiche applicate al settore dei servizi, con l’integrazione delle piattaforme di telecomunicazioni, informatiche e di pagamento. La capacità di elaborazione umana, la esperienza professionale e la conoscenza personale sono superate dalla enorme capacità di elaborazione, di memoria e di interazione di questi sistemi: molti lavori sono ormai inutili, sostituite dalle macchine.

Ci troviamo ad una svolta nel sistema capitalistico: mentre la meccanizzazione della agricoltura creò disoccupati che però venivano subito assorbiti dalle industrie, e poi l’automazione nelle fabbriche creò una disoccupazione che veniva celermente assorbita dallo sviluppo del settore dei servizi, la globalizzazione, l’invecchiamento della popolazione e lo sviluppo delle tecnologie nel terziario producono una polarizzazione del lavoro: da una parte ci sono attività estremamente specialistiche, molto ben pagate, per poche persone; dall’altra ci sono sempre più lavori manuali di scarso valore professionale e mal pagati. L'allungamento della vita lavorativa impone ai governi di posticipare sempre di più l’età della pensione, per cui i giovani rimangono senza lavoro. Le soluzioni sono due: ricorrere ai minijob, ai lavoretti, come si è fatto in Germania; ovvero alla maniera inglese, integrando il reddito da lavoro - che è spesso inferiore al livello di sussistenza - con sussidi pubblici. Si arriva al paradosso dei contratti di disponibilità, senza nessun orario minimo né alcun salario garantito: si aspetta una chiamata, e se non arriva niente compenso. Questa è la iperflessibilità del lavoro richiesta dal turbocapitalismo: tanto, alla sopravvivenza di questi sfortunati ci pensa lo Stato. Tartassando quelli che lavorano.

Così non va. La situazione è socialmente insostenibile: c’è chi propone, come il M5S il “reddito di cittadinanza”; c’è chi, come l’ex-Premier Matteo Renzi di ritorno da un viaggio in California, di recente ha ipotizzato una rivoluzione del welfare pubblico, istituendo il “lavoro di cittadinanza”.

Forse è il caso di guardare indietro alla Storia, alle decisioni prese per contrastare la grande crisi del ’29: anche allora fu caratterizzata da una sovrapproduzione mondiale, come era già accaduto nella seconda parte dell’Ottocento. In quest’ultimo caso, il protezionismo portò al conflitto tra le grandi potenze europee. Dopo la crisi del ’29, negli Usa ed in Inghilterra si reagì istituendo sistemi di welfare pubblico e riducendo l’orario di lavoro per tutti, portando la durata della giornata da 12 ore ad 8 ore e la settimana lavorativa da 6 giorni a 5 giorni. Per evitare un crollo della domanda, i salari rimasero inalterati. Dove la disoccupazione era arrivata a livelli insostenibili, come accadde in Germania, il liberismo sfrenato portò al malcontento e questo al nazismo: il timore di una rivoluzione comunista indusse anche gli industriali ed i banchieri tedeschi a sostenere Hitler.

Oggi bisogna rimettere nuovamente in fase lo sviluppo tecnologico, gli enormi aumenti di produttività dovuti alle tecnologie ICT, con l’organizzazione del lavoro, così come era stato auspicato da Giovanni Agnelli nella lettera che scrisse a Luigi Einaudi il 5 gennaio del 1933: per riassorbire la disoccupazione occorre ridurre drasticamente, pur mantenendo invariati i salari, l’orario di lavoro.

Oggi, come allora, ci troviamo di fronte ad una flessione del commercio mondiale, spesso al collasso della domanda e dappertutto ad una situazione di capacità produttiva esuberante. Prima della crisi, la domanda era stata alimentata dal credito, interno ed internazionale, leva oggi non riattivabile in considerazione della prudenza delle banche e delle aspettative di redditi stagnanti se non calanti.

Bisogna portare la giornata lavorativa a 6 ore, la settimana lavorativa a 4 giorni e raddoppiare i periodi di ferie. L’alternativa, il reddito o il lavoro di cittadinanza, non solo portano alla tassazione esasperata di coloro che hanno un reddito, con un inevitabile risentimento. Ma creano una generazione di esclusi, ancora più esasperata e risentita. Sono milioni di persone senza lavoro che vivono solo di assistenza, ai margini della convivenza civile.

Questa regola può essere applicata subito, anche su base nazionale. I beni ed i servizi importati dai Paesi che hanno orari di lavoro più elevati vengono tassati in proporzione, per dumping sociale.

Sta a noi scegliere: c’è lavoro per tutti.

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