Inutile nasconderlo: in questi anni, la Germania ha maramaldeggiato, dentro e fuori dall'Europa.
Ha usato la crisi dell'euro per imporre politiche deflattive che hanno indebolito gli altri partner dell'Unione.
Ha esasperato il rischio di default dei debiti sovrani dei Paesi dell'Europa meridionale per far affluire enormi risorse finanziarie che sono state utilizzate per sottoscrivere i titoli del debito pubblico tedesco, anche con rendimenti negativi, per cui non sono i contribuenti tedeschi a pagare il costo del loro debito ma i risparmiatori degli altri Paesi a ricevere alla scadenza meno soldi di quanti non ne abbiano versati.
Ha usato la debolezza dell'euro, sottovalutato per via della politica monetaria accomodante della BCE per accumulare attivi commerciali enormi. Il surplus della bilancia dei pagamenti tedesca nel 2017 è stato pari all'8,1% del PIL, per un controvalore di 296 miliardi di dollari. Il surplus cinese è stato pari solo all'1,4% del PIL, per un controvalore di 163 miliardi di dollari. Dall'inizio della crisi, nel decennio che va dal 2008 alla fine del 2017, la Cina ha accumulato surplus esteri per 2.300 miliardi di dollari e la Germania per 2.495 miliardi. Sul versante opposto, gli Usa hanno accumulato con l'estero un saldo negativo di 4.427 miliardi di dollari e la Gran Bretagna di -971 miliardi di dollari.
Tanto gli Usa che la Gran Bretagna sono deficitari dal punto di vista commerciale rispetto alla Germania. Nel 2017, secondo l'Ufficio di Statistica tedesco l'avanzo commerciale tedesco nei confronti degli Usa è stato di 51 miliardi di euro, mentre quello con la Gran Bretagna è stato di 23 miliardi di euro.
L'export tedesco è concentrato nel settore automobilistico, che rappresenta da sempre un motivo di vanto. Questo è però un motivo di debolezza, visto che ci sono all'orizzonte tre questioni altamente problematiche, che potrebbero creare danni estremamente rilevanti per l'industria tedesca.
Innanzitutto c'è la Brexit, i cui negoziati sono ancora assai incerti. Comunque vada, non sarà certo Berlino a guadagnare dall'abbandono di Londra come centro finanziario europeo e delle sedi di multinazionali lì installate: ci si sposterà in Olanda e nel Lussemburgo.
Ci sono poi i dazi americani, già introdotti per l'acciaio nella misura del 25% e per l'alluminio nella misura del 10%. Donald Trump lo ha già detto chiaramente, che la Germania deve fare i compiti a casa, riequilibrando l'export e aumentando la sua spesa militare nell'ambito della Nato.
Infine, ci sono gli impegni assunti nell'ambito degli Accordi di Parigi sui mutamenti climatici che prevedono un forte abbattimento del CO2 e degli inquinanti immessi nell'atmosfera. In questo contesto, non solo la Germania ha abbandonato la produzione energetica nucleare per usare il gas proveniente dalla Russia, ma c'è un altro problema, il più spinoso di tutti: il motore diesel, su cui la industria automobilistica tedesca ha investito tutte le sue migliori energie di sviluppo. Viene visto come il primo ad essere messo sotto accusa per via delle sue emissioni di gas: sono motori di grossa cilindrata, a basso rendimento unitario, e per di più inquinanti. Kaputt!
Anche il partner commerciale cinese, con cui la Germania è stata in attivo anche nel 2017 per 16 miliardi di euro, potrebbe riservare brutte sorprese: se in questi anni ha fatto man bassa nell'importare le tecnologie meccaniche ed impiantistiche tedesche, tende a rendersi autonoma.
Lo squilibrio strutturale attivo del commercio tedesco comincia a stare stretto a tutti.
Brexit, dazi americani e stop ai motori diesel.
Berlino trema.