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L'incapacità di essere normali



La normalità a cui intendiamo rapportarci non è quella a cui allude Richard Rush nel suo bel film dei primi anni '70, che narra le pulsioni politiche e gli ideali di un aspirante insegnante agli albori della contestazione studentesca nei campus americani. In quell'accezione il termine normalità evocava accettazione di valori non condivisi e significava assimilazione acritica alla tradizione, rinuncia alle proprie convinzioni, adeguamento all'esistente, appiattimento della coscienza e rimozione della forza critica che da essa può scaturire.

Nel nostro caso essere normali è sinonimo di decisioni dettate dal buon senso, possibilmente rivolte al perseguimento del bene comune e non partigiane o atte a favorire qualcuno a svantaggio di molti, economicamente giustificate e socialmente condivisibili, insomma di semplice e riconosciuta razionalità e onestà. A nostro avviso, presa per buona questa definizione, in gran parte della nostra classe dirigente esiste un grosso deficit di normalità, che probabilmente si accompagna ad altri deficit, i quali non di rado sfociano in implicazioni che non attengono solo alla sfera delle capacità o delle compatibilità, ma sempre più spesso sconfinano quantomeno nell'assenza di etica e non di rado nel malaffare.

Quando parliamo di classe dirigente non intendiamo riferirci soltanto ai nostri rappresentanti in Parlamento o nelle più importanti Istituzioni della Repubblica, ma a tutti coloro che occupano posizioni di una qualche responsabilità, locale e nazionale.

Leggendo le cronache di queste settimane e di questi giorni viene da dire che usi e (mal)costumi non cambiano mai, che le varie stagioni di tangentopoli, affittopoli e parentopoli si replicano negli anni sempre uguali a se stesse. Allarmanti sono le ultime statistiche fornite dalla Corte dei Conti, che nell'anno appena trascorso segnalano un preoccupante aumento della corruzione e degli abusi in genere. Ma non è a questi fenomeni che intendiamo riferirci. Normalità dovrebbe coincidere anche con il rispetto reciproco fra Istituzioni e con il riconoscimento senza infingimenti delle loro rispettive prerogative e attribuzioni, nonché delle leggi e delle prassi consolidate alle quali ognuna di esse dovrebbe attenersi. E' così?

Il tribolato iter del Decreto cosiddetto "Milleproroghe" smentisce in modo inequivoco che questa indispensabile "normalità istituzionale" trovi al momento albergo nel nostro Paese. Dal 2005 è divenuta prassi dell'Esecutivo di turno presentare a fine anno o subito dopo un Decreto omnibus, la cui funzione sarebbe quella di prorogare provvedimenti operativi contenuti in Leggi precedenti che sono arrivati in scadenza senza tuttavia aver completato interamente i compiti loro assegnati. Già questa prassi sarebbe indice quantomeno di inefficienza o inefficacia legislativa, ma il fatto ancora più grave è che, nella sostanza, il Decreto contiene non solo proroghe nel senso di cui sopra, ma norme del tutto nuove, spesso scollegate fra loro, attinenti alle materie più varie e disomogenee. Insomma, una sorta di auto-compattatore, dove a fianco di misure di sicura utilità, ben celate nelle pieghe del testo vengono inserite vere e proprie schifezze di matrice lobbistica o clientelare, che diversamente verrebbero indicate alla pubblica riprovazione.

Nella presente occasione il lavorio di questi guastatori parlamentari ha fatto sì che il Milleproroghe passasse da 4 articoli e 25 commi a 9 articoli e, udite, 221 commi, suscitando la giusta reprimenda del Capo dello Stato per l'assoluta mancanza di trasparenza e organicità. Non ci soffermeremo sui contenuti più deteriori del provvedimento; ne hanno parlato diffusamente i giornali e costituiscono un segno ulteriore del degrado in cui sta volgendo questa legislatura.

Due sono le norme che a nostro avviso meritano di essere prese in esame: una riguarda la tassazione delle rendite finanziarie e l'altra la nuova disciplina della Social Card. Il Decreto prevede l'armonizzazione del trattamento fiscale fra i Fondi di Investimento di Diritto Italiano e quelli comunitari armonizzati. Fino ad ora, fatta salva per entrambi l'aliquota del 12,5%, i nostri erano tassati annualmente con il criterio della maturazione (quando i proventi finanziari maturavano) mentre i secondi scontavano l'imposta al momento della realizzazione, cioè quando il sottoscrittore riscattava le sue quote. D'ora in poi quest'ultimo sarà l'unico metodo applicato, che ad ogni evidenza risulta più favorevole dell'altro.

Sorge a questo punto spontanea una domanda: perché non procedere finalmente ad una riforma organica di tutta la materia e continuare a penalizzare coloro i quali acquistano direttamente valori mobiliari e non si avvalgono di una gestione professionale?

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