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L'incapacità di essere normali

Prima di parlare di Social Card, due parole sulla politica a favore delle famiglie attuata dall'Esecutivo in carica. I tagli lineari di Tremonti si sono abbattuti in termini draconiani sulla spesa per i servizi sociali, che nel giro di tre anni si sono ridotti da oltre 2 miliardi di euro a poco più di 500 milioni; in particolare, i fondi per la non autosufficienza e per gli asili nido sono stati azzerati e tutti gli altri ridotti ai minimi termini.

Più in generale, l'Italia spende solo lo 0,1% del reddito nazionale a favore dei cittadini in stato di indigenza contro l'1,3% in media degli altri paesi europei. La riproposta della Social Card in termini riveduti e corretti implicitamente ammette che il meccanismo precedente non ha funzionato secondo le aspettative: ne hanno beneficiato 750 mila individui, dei quali solo 500 mila in modo continuativo, quando tutte le statistiche concordano nel ritenere la platea degli aventi diritto pari ad almeno il quadruplo di questa cifra.
Non ha certamente aiutato la limitazione per età posta sui possibili beneficiari, individuati negli over 65 e negli under 3, quasi che un bambino potesse uscire da una condizione di indigenza per il solo fatto di compiere 4 anni.

La nuova formulazione lascia perplessi su più di un punto, ad iniziare dall'assegnazione della Social Card nei comuni con più di 250 mila abitanti ai cosiddetti "enti caritativi", i quali avranno la potestà di individuare gli aventi diritto finali. Siccome si parla di sperimentazione della durata di 12 mesi, è lecito chiedersi con quali criteri verranno scelti questi "enti caritativi" (politico, religioso, altro?), quale metodologia sarà da essi adottata per selezionare i beneficiari, in base a quali parametri si stabilirà se la sperimentazione è stata efficace o meno.

Che il malconcio bilancio statale spinga verso un welfare leggero e si punti in modo deciso verso la sussidiarietà e il volontarismo privati può essere un'opzione sul tappeto, si tratta di capire se questo è il massimo che si può fare "rebus sic stantibus" e se un certo tipo di scelte siano politicamente neutre o non risentano di qualche frequentazione di troppo a meeting tardo estivi.

E' di questi giorni la presentazione da parte delle ACLI di un Piano Nazionale contro la Povertà, che al di là dei contenuti innovativi, decisamente interessanti e a nostro avviso migliorativi rispetto alla riedizione della Social Card, ha il grosso pregio di imporre al centro dell'Agenda Politica il tema della lotta alla povertà. Il presupposto del Piano è quello di coinvolgere i nuclei familiari che ritengono di avere i requisiti per ottenere il sussidio, avendo nel contempo un quadro preciso di tutte le risorse che lo Stato e gli Enti locali mettono a disposizione per contrastare la povertà.

In questa proposta, contrariamente al disegno del Governo, un ruolo attivo viene attribuito ai Comuni, i quali devono valutare le singole situazioni e predisporre un complesso di servizi di sostegno da affiancare all'erogazione pecuniaria. Oltre al coinvolgimento degli uffici amministrativi periferici, il Piano delle ACLI si fonda sui principi dell'universalismo (eliminazione delle barriere per età ed estensione del beneficio a tutti i residenti e non solo ai cittadini italiani), dell'adeguatezza (l'importo deve coprire interamente il gap fra povertà assoluta e minimo di sussistenza e non standard ma commisurato alla situazione dei singoli/famiglie), dell'equità territoriale (il costo della vita non è uguale ovunque).

Il mix contribuzione pecuniaria/erogazione di servizi costituisce sicuramente una alternativa più efficace rispetto a quanto previsto dalla Social Card se l'obiettivo reale è quello di accompagnare progressivamente gli indigenti verso una condizione più vivibile; se, come da tradizione, combattere la povertà diventa uno spot per i creduloni o un guscio vuoto di parole, allora qualsiasi forma di carità pelosa serve alla bisogna.
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