Non solo: bisogna capire
dove finirà il corrispettivo incassato da TIM dalla cessione della rete, se andrà ad alimentare un dividendo straordinario a tutto beneficio degli azionisti oppure anche ad una riduzione del debito residuo. Una società di telecomunicazioni che gestisce solo servizi, non ha molti margini di profittabilità una volta che perde gli introiti derivanti dall'accesso e dalla interconnessione di altri operatori alla sua rete.
Davvero mogio, dunque, questo ritorno dello Stato italiano in quella che era stata la Stet, la capogruppo da cui dipendeva non solo la
SIP poi diventata
Telecom Italia, ma anche
Italcable e le svariate partecipate all'estero, oltre che un nugolo di società di servizi come la
SIRTI che realizzava gli impianti, e che aveva pure assorbito la
ASST, l'Azienda di Stato per i Servizi Telefonici, trasformata in
Iritel. C'era pure
Telespazio, poi ceduta a
Finmeccanica.
Era un
complesso industriale ai vertici mondiali sotto il profilo tecnologico e della redditività,
ma sempre per merito degli interventi pubblici. Lo Stato versava all'ASST circa 1.000 miliardi di lire l'anno per fare investimenti, mentre la Cassa Depositi e Prestiti aveva erogato alla Sip il prestito necessario a finanziare il
Piano Europa, volto ad introdurre la teleselezione automatica, per chiamare direttamente da una città all'altra senza dover ricorrere ai centralinisti.
Dal nocciolino duro della Fiat alla Tecnost dei Capitani Coraggiosi che fece l'Opa del secolo tutta a debito poi scaricato sulla preda, dalla Olimpia del Gruppo Pirelli agli spagnoli di Telefonica in TELCO, anche la stagione dei francesi si sta concludendo.
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