Il problema è che ora l'America di Trump ha deciso che il problema va affrontato in tempi brevi. Non dice risolto in tempi brevi, perché questo provocherebbe la madre di tutte le depressioni e travolgerebbe la stessa amministrazione Trump. Ma anche solo iniziare ad affrontarlo, spinti dai dazi (anche perché nessuno lo avrebbe affrontato altrimenti), non sarà affatto indolore.
Certo, Cina ed Europa, come il barone di Münchausen, si tireranno su prendendosi per i capelli e indebitandosi per finanziare riarmo e infrastrutture in Europa e consumi in Cina, ma che cosa faranno il Vietnam e il Lesotho, colpiti dai dazi più severi, vicini al 50 per cento, o il Bangladesh? Già, perché i tecnici del Commercio americano, per fare in fretta, non hanno calcolato minuziosamente il peso delle barriere commerciali altrui e poi comminato dazi di vera reciprocità, ma hanno applicato una semplice formula che aggancia il dazio al delta tra export e import nei vari paesi. E così il paese X potrebbe essere un modello di libero commercio, ma se gli capita di esportare molte magliette in America senza importare abbastanza Tesla, sarà severamente penalizzato.
Ora, chi produce magliette in Lesotho sono multinazionali del tessile che non andranno certo a produrle in America. Andranno nei paesi che hanno il solo dazio americano minimo del 10 per cento, come Turchia o Sud America, ma le magliette costeranno comunque di più e in Lesotho ci saranno molti disoccupati in più.
Insomma, il mondo dormiva, o faceva finta di dormire sonni profondi, ma ora si sveglia perché c'è il terremoto. Si tratta di un terremoto studiato a tavolino e i cui autori, almeno fino a un certo punto, sanno quello che stanno facendo. Bessent e Miran (il capo dei consiglieri economici di Trump) hanno parlato e scritto molto, già dall'estate scorsa, su come mitigare gli effetti di quello che avrebbero fatto, ma si sono occupati poco dei paesi più deboli.
Gli altri intanto si riorganizzano, inevitabilmente. Si vedono anche cose quasi innaturali, come l'alleanza tattica tra Cina, Giappone e Corea del Sud, paesi che da un secolo si stimano ben poco tra loro, su come rispondere a Trump e su come migliorare il loro interscambio. E c'è chi accarezza l'idea di un Canada nell'Unione Europea. Si tratta però di unioni degli esportatori cui manca sempre un importatore.
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