La dedollarizzazione, dunque, appare più come un fenomeno lento e naturale che come il risultato di eventi traumatici o di una espressa volontà politica. I dollari tenuti a riserva dalle banche centrali in giro per il mondo non vengono venduti, ma le nuove disponibilità vengono impiegate in oro, renminbi o altre valute (un fenomeno che precede Trump e risale alla metà del decennio scorso). La novità è che i flussi di capitali privati verso l'America, che hanno sostenuto il dollaro, i Treasuries e Wall Street in questi anni, si stanno arrestando.
Rimane poi da vedere, più in generale, fino a che punto sia fondato il passaggio repentino del mondo dall'idea dell'eccezionalismo americano a quella del declino accelerato. Salti psicologici di questo tipo avvengono in genere quando i mercati sono sbilanciati, ovvero quando sono troppo lunghi o troppo corti. Non c'è dubbio,
oggi il mondo si ritrova molto lungo di America proprio mentre arrivano elementi di segno contrario (dazi, volontà di indebolire il dollaro, dubbi sull'intelligenza artificiale). È in momenti come questi che una narrazione entusiasta diventa disfattista.
Attenzione però a non passare da un eccesso all'altro. La Roma di Romolo Augustolo era già finita da quarant'anni.
L'America di oggi è all'offensiva su molti fronti, non intende rinunciare al ruolo del dollaro come valuta di riserva (mantenuto del resto in passato anche nelle fasi di debolezza), aumenta le spese militari e sta imponendo, non subendo, un rassetto generale delle relazioni internazionali.
L'amministrazione Trump ha anche deciso di caricare sul 2025 tutti i costi della ristrutturazione che ha in mente e di riservare al 2026 le scelte che dovrebbero dare sollievo.
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