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Veneto, una sberla allo Stato

Dannoso, costoso, assente: dalle quote-latte alla crisi bancaria

Il Veneto rivendica dallo Stato i "suoi" soldi, la differenza tra le imposte pagate e la spesa pubblica di cui beneficia attraverso i diversi canali di finanziamento. Sarebbero 18,2 miliardi di euro, secondo i dati più aggiornati disponibili, riferiti al 2012: è una somma superiore a più di un punto percentuale del PIL dell'intera Italia, che ripartita tra i residenti arriva a 3.733 euro.

Non è affatto una novità: le Regioni del sud sono beneficiarie nette di trasferimenti. Secondo la CGIA di Mestre, tutte queste presentano un residuo fiscale negativo: ricevono di più di quanto versano. La Sicilia, ad esempio, ha il peggior saldo tra tutte le 20 Regioni d'Italia: in termini assoluti è pari a -8,9 miliardi di euro, che si traduce in un dato pro-capite pari a 1.782 euro. In Calabria, invece, il residuo è pari a -4,7 miliardi di euro, in Sardegna a -4,2 miliardi, in Campania a -4,1 miliardi e in Puglia a -3,4 miliardi di euro.

Le disposizioni sul Federalismo fiscale, il cavallo di battaglia della Lega di governo, introdotte dal Ministro dell'economia Giulio Tremonti, si sono fermate a metà, visto che non si è mai riusciti ad imporre alle regioni ed agli Enti locali la rilevazione dei costi standard. E' uno strumento indispensabile per poter definire con esattezza l'ammontare del contributo perequativo. Perché, se da una parte si stabiliscono ad esempio nel settore della Sanità i livelli essenziali di assistenza al fine di assicurare la uguaglianza di trattamento sull'intero territorio nazionale, anche i costi devono essere confrontabili. Può capitare, infatti, che una giornata di degenza ospedaliera costi in modo molto diverso tra le diverse Regioni. E non è detto che il costo sia davvero superiore nelle Regioni meridionali. Solo con i dati paragonabili si può davvero capire chi è virtuoso e chi sciupa risorse.

Ma di tutti questi ragionamenti ai Veneti ormai importa assai poco: pagano allo Stato più di quello che ricevono, e vogliono il trattamento dell'Alto Adige, trattenere i nove/decimi delle imposte.

Si è arrivati a questa situazione per via del modo in cui è stata gestita la crisi, anche se il risentimento viene da lontano. Il risentimento dei Veneti comincia con le multe per le “quote latte” che gli allevatori erano costretti a pagare per poter continuare a tenere le mucche che avevano da sempre. Lo Stato italiano, quando si discusse per la prima volta a Bruxelles di come smaltire le eccedenze di latte in tutta la Comunità europea, non aveva dati statistici attendibili: sottovalutò fortemente la produzione italiana, che non era mai stata censita in modo capillare. C'è chi disse che, nell'ambito delle trattative, il governo italiano aveva preferito aiutare le coltivazioni mediterranee, penalizzando così le regioni settentrionali. Quando arrivarono i controlli e si vide che in Italia c'era una produzione di latte superiore alla “quota” assegnata al nostro Paese e quindi più capi di bestiame di quelli dichiarati, scattarono le multe: per evitarle bisognava portare le mucche al macello. La storia è andata avanti così per anni: lo Stato italiano si era dimostrato incapace, addirittura dannoso per gli allevatori italiani, tanti dei quali concentrati in Veneto.

Dopo la delusione per federalismo fiscale ancora zoppo, è arrivata la crisi del 2009, che ha colpito in modo particolare il Veneto, la cui struttura produttiva è composta di piccole e medie imprese. In Veneto si è registrato un tristissimo primato, quello degli imprenditori che si sono suicidati per colpa dei debiti e del fallimento della loro azienda: fino a settembre 2016, erano stati 1.394 in tutta Italia, ma ben 251 solo in Veneto.

Alla crisi economica si è aggiunta la nuova tassazione, che ha colpito in modo devastante le imprese, con l'introduzione dell'IMU sui capannoni e soprattutto sugli "imbullonati": per valutare il valore, bisognava considerare anche tutte le installazioni tecniche fisse al suolo. Una vera e propria follia fiscale.

Il credito ha avuto un ruolo determinante, dopo che le due principali banche operanti sul territorio sono entrate in crisi, la Banca popolare di Vicenza e Veneto Banca. Per anni si è andati avanti senza alcun aiuto dello Stato, ci sono state ricapitalizzazioni forzate a valori azionari che si sono dimostrati assolutamente irrealistici, ma che non avevano il mercato azionario a fare da giudice ed arbitro. Quando sono crollati i valori di Borsa delle banche di mezzo mondo, nessuno gridava allo scandalo, anche se la capitalizzazione era di gran lunga inferiore al capitale netto contabile. E così è andata avanti per mesi una lunga agonia, finché non sono state rilevate dallo Stato che ha ceduto i depositi e le attività in bonis a Banca Intesa, dopo un intervento infruttuoso del Fondo Atlante.

Insomma, durante e dopo la crisi, a Roma nessuno si è mai dato cura del Veneto: pagassero le tasse e stessero zitti. Se falliscono, ci dispiace. Se le banche venete vanno in malora, è solo colpa loro.

Basta varcare la frontiera, a pochi chilometri, andando in Croazia oppure in Slovenia, per non parlare della Germania appena un po' più lontana, per vedere come le autorità locali coccolano e vezzeggiano gli imprenditori, facendo loro ponti d'oro. Ed invece, da noi, i piccoli imprenditori sono sinonimo di evasione fiscale: vanno vessati, spremuti.

E le ultime decisioni del governo, con i benefici automatici del super ammortamento e dell'iper ammortamento di Industria 4.0, hanno squarciato il velo: le imprese fanno cassa con gli investimenti, risparmiando sulle imposte. Un terno al Lotto per le imprese, che in Veneto hanno aderito in modo massiccio a queste forme di agevolazione fiscale.

La soluzione di tutti i problemi è qui, a portata di mano: teniamoci i nostri soldi.

Il Veneto ha dato una sberla allo Stato: dannoso, costoso, assente, dalle quote-latte alla crisi bancaria.

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