Si fa sempre tutto in silenzio, come d'abitudine. Il Consiglio europeo del 28 giugno ha un ordine del giorno ancora ufficialmente sconosciuto: sul sito ci sono solo i numeri di contatto per i giornalisti.
Eppure, sui giornali si legge da qualche ora che si discuterà del quadro finanziario dell'Unione per il periodo 2021-2027, degli effetti sul bilancio europeo dei mancati contributi della Gran Bretagna, di maggiori stanziamenti per la Difesa e per l'accoglienza ai migranti, decurtando i Fondi di Coesione e quelli per l'Agricoltura.
Si discuterà anche della riforma dell'Accordo di Dublino, che disciplina la accoglienza dei richiedenti asilo.
Tutti noi sapevamo che c'era questa scadenza importante, ma di quello che bolliva effettivamente in pentola, nessuno ci ha mai raccontato nulla.
Già, ma perché questo silenzio?
La regola è questa: chi è del mestiere, e rappresenta l'Italia a Bruxelles, gestisce le trattative senza dare eccessiva pubblicità: le relazioni diplomatiche sono confidenziali; si sta trattando; non bisogna compromettere con fughe di notizie e soprattutto con dibattiti strillati i possibili obiettivi. In pratica, le informative giungono a Roma con un parallelismo tra Farnesina e Palazzo Chigi e qualche sporadico contatto con i Ministeri interessati per materia. Ad essere gentili, si può dire che le nostre Autorità sono costantemente informate di ciò che accade, ma con bassissime capacità di incidere sulla evoluzione dei dossier. Perché, altrimenti, bisogna mettere una “riserva politica”, e questo accade ben di rado, perché lo si può fare solo in Coreper quando i giochi sono già stati fatti dal punto di vista tecnico. Ma, anche in questo caso, manca una lobby italiana, quella ragnatela di rapporti che consente di spingere per una soluzione senza neppure farsene accorgere.
La “fase ascendente” della formazione delle Direttive europee, che pure ha una apposita procedura da parte delle Commissioni parlamentari, si attiva quando c'è un testo già deliberato, portato dalla Commissione europea alla codecisione con il Parlamento europeo. Ed a quel punto bisogna fidarsi della compattezza dei Gruppi politici omologhi, dei “colleghi deputati di Bruxelles”, della loro disponibilità ad accogliere i suggerimenti delle nostre Commissioni parlamentari.
Diciamo come stanno le cose: la Commissione europea ha il monopolio della iniziativa. A Bruxelles, si adotta la tattica della talpa: si comincia sottoterra, con una frase buttata lì, in un documento qualsiasi. Meglio se è una relazione di carattere generale, in cui si parla di tutto. Basta anche una piccola nota, un riferimento, tanto per mettere il primo appiglio. Poco dopo, un altro documento cita il primo, facendo risaltare la questione, che assume già una certa rilevanza: la nostra talpa ha continuato a scavare. A questo punto, inizia la procedura formale, che invoca quanto si è scritto in precedenza. La tiritera è sempre la stessa: “Visto che..., e visto che..., considerato che la questione è di manifesto interesse..., valutata l'importanza di un intervento volto a...”. Si formalizza così una “proposta civetta”, appena un brogliaccio che viene messo in pubblica consultazione: lì si scatenano gli studi professionali, le associazioni di categoria, le singole industrie. Si materializzano così testi di complessità incredibile, di cui i modestissimi burocrati europei si fanno strenui portavoce. Vanno avanti solo le soluzioni dietro cui si muovono lobby pesanti e potenti.
Insomma, a Bruxelles, in cucina non si entra. Ci invitano a tavola, per un giro d'orizzonte in cui i rappresentanti dei 28 Paesi, parlando 4 minuti ciascuno, esauriscono le due ore di dibattito.
I giochi sono fatti: c'è da pagare il conto.