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La City non sogna più

Deglobalizzazione, frammentazione finanziaria e tensioni internazionali: l'onda montante della Green Economy si è già infranta sugli scogli della realtà


Cinquant'anni fa, la Gran Bretagna era ancora un punto di riferimento ineludibile per le sue industrie: nelle auto, la Mini fu un successo senza pari, le storiche MG, Austin, Rover e Jaguar sfornavano sempre nuovi modelli mentre Rolls Royce e Bentley rimanevano miti ineguagliabili; per le motociclette, BSA, Norton, Triumph e Royal Enfield facevano sognare i ragazzi; nel settore dell'abbigliamento, mentre spopolavano i marchi tradizionali di Burberry e Barbour, Carnaby Street divenne una icona della moda pop. Tutto finito, tutto evaporato: tagliare le tasse, ora, soprattutto ai più benestanti, significa far aumentare le importazioni. Anche la BMW, ad esempio, ha appena deciso di chiudere i suoi impianti automobilistici inglesi per trasferirli in Cina.

Fino all'anno scorso, invece, ancora al COP 26 di Glasgow, il sogno della City era quello di cavalcare la nuova onda, quella della Green Economy: il suo ruolo sarebbe stato quello di finanziare la transizione ecologica raccogliendo capitali in tutto il mondo.

Dopo un ventennio di globalizzazione dei commerci e di vorticosa circolazione dei capitali, in questi ultimi anni dopo la Brexit, ma soprattutto in questi ultimi mesi per via della guerra in Ucraina e delle tensioni su Taiwan, il quadro è diventato davvero fosco: non è una nebbia mattutina, ma una densa coltre di fumo che impedisce di guardare al futuro con serenità. La delusione più grande, per la City, è dovuta all'abbandono dei capitali stranieri più consistenti: arabi, russi e cinesi.

Se l'industria finanziaria basata a Londra è rimasta il vero motore della Gran Bretagna, sta venendo a mancare proprio il carburante che la alimenta.

Deglobalizzazione, frammentazione finanziaria e tensioni internazionali: l'onda montante della Green Economy si è già infranta sugli scogli della realtà

La City non sogna più
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