Karl Marx, all'inizio del 1848, si schierò a favore del libero scambio perché l'impoverimento che questo avrebbe creato tra i perdenti avrebbe creato le condizioni per la rivoluzione.
Roosevelt nel 1934 rimodulò ma non abolì le alte barriere doganali dello Smoot-Hawley Act del 1930. La forte ripresa della seconda metà del decennio avvenne, in America e in Europa, per via fiscale e non fu frenata dagli alti dazi.
Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale gli Stati Uniti offrirono a Europa e Giappone accordi commerciali molto favorevoli in modo da facilitarne la ricostruzione.
Questa situazione squilibrata si è protratta fino a oggi. La
riforma fiscale americana approvata in dicembre voleva correggere uno di questi fattori di squilibrio (quello per cui l'America è l'unico paese che non rimborsa le imposte indirette ai suoi esportatori e l'unico che non tassa l'import) ma la lobby degli importatori lo ha impedito. Gli Stati Uniti sono del resto l'unico paese in cui la
lobby degli importatori è più forte di quella degli esportatori.
La Cina, alfiere del libero commercio come lo sono sempre gli esportatori netti, aggiunge agli squilibri citati una notevole disinvoltura nell'appropriazione di proprietà intellettuale. Se un'impresa tecnologica occidentale vuole operare in Cina deve cedere know-how, altrimenti non viene ammessa. Negli altri settori, come l'acciaio, la Cina finanzia le perdite delle aziende pubbliche, che possono così esportare sottocosto e mandare fuori mercato i concorrenti americani ed europei.
La Cina usa poi Messico e Canada per fare entrare i suoi prodotti negli Stati Uniti come se fossero di origine Nafta, godendo così delle agevolazioni previste dal trattato. L'Europa non protesta con la Cina perché ha paura di perderne il mercato. L'America ci sta invece provando.
Sarebbe bello se i fautori del
libero scambio, oltre ad alzare la voce nei casi in cui chi è meno protezionista decide di diventarlo come gli altri, si levassero anche contro chi rimane, come Europa e Cina, più protezionista degli altri.
È poi facile abusare del concetto di difesa nazionale, ma è anche comprensibile che l'America, che aveva venti fabbriche di alluminio nel 2000 e oggi ne ha solo due, si domandi come farà a produrre carri armati e portaerei il giorno in cui non avrà più siderurgia e metallurgia e ci sarà una guerra. Proprio nei giorni scorsi
Putin ha disposto che tutta la filiera militare russa utilizzi esclusivamente, entro il 2025, materie prime e componenti domestiche.
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