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Il Jobs Act è illegittimo

C’è una evidente forzatura costituzionale, che ne vizia la approvazione: il Governo non può chiedere al Senato la fiducia su un testo e poi proporne uno diverso alla Camera.

C’è una evidente forzatura costituzionale, che ne vizia la approvazione: il Governo non può chiedere al Senato la fiducia su un testo e poi proporne uno diverso alla Camera

La fretta è sempre una cattiva consigliera. Quando è unita all’inesperienza, l’insuccesso è dietro l’angolo. Il fatto che al Senato ci sarebbero state difficoltà per i governi sostenuti dal PD, era arcinoto sin dal giorno dopo le elezioni politiche: il premio di maggioranza era scattato solo alla Camera. Bersani aveva cercato inutilmente l’apertura del M5S, ma dovette lasciare la mano ad Enrico Letta. L’appoggio al Governo Renzi da parte dell’NCD, la formazione guidata da Alfano con una scissione da Forza Italia, rappresenta al senato una stampella alquanto incerta. Meglio non rischiare.

Aver presentato il Jobs Act, il disegno di legge delega per il riordinamento del mercato del lavoro, in prima lettura al Senato è stata per il Governo Renzi una ingenuità politica, poi aggravata dalla fretta: bisogna presentarsi presto con qualche successo sul piano delle riforme. Il 9 ottobre, il Governo ha presentato un maxi-emendamento su cui è stata posta la questione di fiducia: ha fatto decadere tutti gli emendamenti, la discussione è stata troncata di netto e si è andati direttamente alla votazione dell’unico articolo di legge proposto dal Governo. Chiamata ghigliottina o tagliola, la procedura innescata dalla questione di fiducia chiude la discussione. I senatori sono stati messi di fronte ad un dilemma: votando sì, approvavano il testo del Governo; votando no, determinavano le dimissioni del Governo con le conseguenze immaginabili.

Nel merito, il maxi-emendamento su cui il Governo ha messo ed ottenuto la fiducia del Senato non prevede il reintegro del lavoratore ingiustamente licenziato per ragioni disciplinari, ma unicamente un risarcimento monetario. In pratica, si da al datore di lavoro mano libera nei licenziamenti individuali, sia accampando ragioni economiche insussistenti sia per mancanze disciplinari non commesse. La reintegrazione nel posto di lavoro rimane solo per i licenziamenti discriminatori: per esemplificare, a causa delle idee politiche del dipendente, della razza o delle inclinazioni sessuali.

Era un boccone davvero difficile da mandar giù per la sinistra. E così, dopo il voto del Senato, c’è stata una riunione in casa PD, al cui termine è stato votato un documento che reintroduceva il reintegro nel posto di lavoro nel caso della insussistenza della mancanza disciplinare. Il Governo, a questo punto, ha presentato in Commissione alla Camera un nuovo testo che recepisce l’accordo raggiunto in sede PD.

Siamo arrivati al dunque: con ogni probabilità, la Camera approverà su proposta del Governo un testo diverso da quello che il medesimo Governo aveva proposto al Senato e sui cui aveva posto la fiducia. La minaccia di dimettersi, che ha condizionato il voto del Senato, alla Camera si è dissolta nel nulla: è stata una forzatura.

Il Governo può cambiare idea, tutte le volte che crede, ma non può mettere la fiducia su un testo di legge in un ramo del Parlamento, minacciando le dimissioni in caso di voto contrario, e poi proporre un altro testo. I Governi la mettono generalmente in seconda lettura, ma solo per accelerare l’iter di approvazione di un disegno di legge. Se la mettono in un ramo del Parlamento, devono confermarla anche nell’altro. Stavolta, il fatto che il Governo abbia proposto alla Camera un testo diverso da quello su cui aveva chiesto la fiducia al Senato, dimostra che c’è stata una frode procedurale.

Qualsiasi norma del Job Act sarà impugnabile da chiunque di fronte alla Corte costituzionale, per vizio nell’iter di formazione: la fiducia è una cosa seria.


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