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Perché il rottamatore è stato rottamato

Democrazia governante e mercatismo affondano, in un unico gorgo

A che cosa servisse questa strategia, volta ad imporre la democrazia governante, è noto: ad approvare finalmente le riforme strutturali, quelle che sono state predicate da decenni dalle lobby mercatiste, innervate nelle istituzioni economiche e burocratiche internazionali e sovranazionali, pubbliche e private: dall’OCSE al FMI, dalla Commissione europea alle Agenzie di rating. Si va dalla privatizzazione delle funzioni sociali, quali la previdenza, la sanità e l’istruzione, alla eliminazione di qualsiasi forma di aggregazione sociale capace di fermare il mercatismo. Basta, dunque, con i sindacati, con i contratti collettivi nazionali di lavoro; basta con le tutele reali del posto di lavoro. Tutto deve essere flessibile, azzerando tutele e resistenze.

La strategia mediatica ha puntato tutto sul conflitto generazionale: sono i vecchi che rubano il lavoro ai giovani, che si fanno pagare pensioni spropositate e che scaricano debiti colossali sulle generazioni future. A beneficio dei giovani, c’è la grande illusione del reddito garantito per tutti: tanto si tassa chi lavora, redistribuendo i salari a favore dei disoccupati. Naturalmente, i profitti e le rendite rimangono senza controllo: il capitalismo non ha responsabilità sociale. Spetta allo Stato, invece, socializzare i salari. Non c’è più il diritto al lavoro e ad una retribuzione equa, idonea a garantire una esistenza libera e dignitosa, ma il diritto al reddito garantito dallo Stato con la tassazione dei lavoratori. Le imprese non vanno tassate, perché altrimenti delocalizzano.

Finisce così la seconda Repubblica. Nacque nel ’94, con la fine dei partiti che avevano dato vita alla Costituzione del 1948, che avevano come principio fondamentale la solidarietà sociale e territoriale. Tutti i soggetti politici della prima Repubblica scomparvero, oppure abiurarono. Il progetto neoliberista, che aveva contagiato tutti, propugnava meno Stato e più mercato. Lo Stato si ritirò dal settore industriale e bancario, ma i privati non brillarono né per lungimiranza né per intraprendenza: si limitarono ad incassare il più possibile ed ad investire il minimo. La moderazione salariale assicurava così margini di profitto comunque decrescenti in un contesto sempre meno dinamico.

La crisi del 2008 ha messo tutti con le spalle al muro: per uscirne si doveva tornare ad investire nell’economia reale. Ed invece si è scelta la via del darwinismo sociale, della deflazione selvaggia, con manovre fiscali che hanno distrutto la domanda, portato al fallimento centinaia di migliaia di imprese, provocato la perdita di milioni di posti di lavoro. E’ stata data una spallata finale al sistema di garanzie sociali e dei livelli salariali acquisiti, con il Job Act ed i voucher a 10 euro l’ora. Le imprese sono state beneficiate con la decontribuzione previdenziale per i neoassunti a tempo indeterminato con contratti a tutele crescenti, ma finalmente licenziabili ad nutum.

La accettazione del Fiscal Compact e del principio del pareggio di bilancio hanno rappresentato la resa finale, senza condizioni, al nuovo ordine socioeconomico che andava costruito sulle macerie del Welfare State.

Sono i dati dell’economia reale e finanziaria di questi anni a dimostrare l’inconcludenza di questo sistema mercatista: l’export netto italiano aumenta, ma il surplus non viene reinvestito nell'economia reale. Diviene nuovo capitale finanziario, reinvestito all’estero insieme a quote sempre più elevate del risparmio interno: finanzia le imprese ed i Paesi che ci fanno concorrenza.

E’ sempre più difficile trovare chi giustifichi sul piano e politico queste situazioni. Per questo si parla sempre d’altro, di casta e di corruzione, per cercare di confondere l’opinione pubblica.

Occorre ricreare il consenso popolare su una prospettiva di futuro condiviso.

C’è una crisi irreversibile di consenso: la democrazia governante ed il mercatismo affondano insieme, in un unico gorgo.

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