Guardatevi intorno, non contemplate l’ombelico italiano.
In Inghilterra, la Brexit sta dilaniando al loro interno tutte le forze politiche, che sono state obbligate all’uscita dalla Ue dal referendum popolare del 2016. Niente più sudditanza verso Bruxelles, ma soprattutto una lotta interna tra il potere della finanza, che è diventato il fulcro della economia inglese a vantaggio della City londinese, e tutto il resto del Paese che è vittima della desertificazione produttiva. L’immigrazione massiccia, proveniente sopo la crisi sia dai Paesi del Commonwealth che dall’Unione Europea, ha zavorrato i conti del generoso welfare britannico, che ha preso a carico milioni di disoccupati. La Unione europea cerca in ogni modo di rendere traumatico, se non drammatico, l’abbandono del mercato interno da parte della Gran Bretagna. Sa bene che, altrimenti, dal giorno dopo sarebbe un fuggi fuggi, soprattutto da parte dei Paesi che non aderiscono all’euro.
La creazione europea è in crisi conclamata, altro che nuova sovranità condivisa. L’Unione è stata realizzata nel passato facendo credere ai popoli che solo unendosi attorno a Bruxelles le cose sarebbero andate meglio. Non ci crede più nessuno, soprattutto perché i Paesi forti hanno fatto il comodo loro. La Germania, la Francia e l’Inghilterra hanno salvato le loro banche dopo la crisi americana, con aiuti di Stato che sarebbero stati illegali. Hanno alterato la concorrenza a loro favore, con regole scritte su misura per loro. Poi, però, quando le cose sono andate meglio per loro, le regole sono state cambiate prevedendo il bal-in: di mezzo ci sono andate solo quelle italiane, che non si erano ingozzate di titoli tossici americane ma che hanno subito lo tsunami delle crisi economica provocata dalla austerità imposta da Bruxelles.
Negli Usa, il Presidente Donald Trump sta ribaltando tutti gli schemi costruiti in settanta anni di dominio americano, superando lo schema del multilateralismo economico. Chiedendo che i conti commerciali siano bilanciati. Ha rifatto gli accordi di libero scambio con il Messico, obbligando le aziende che lavorano lì nel settore automobilistico ad erogare un salario minimo orario comparabile con quello pagato dalle industrie che producono negli Usa, 15 dollari l’ora. Internazionalizzare la produzione non significa delocalizzarla per continuare a vendere sul mercato domestico e lucrare sul minor costo della manodopera estera. Anche Amazon si è dovuta arrendere, ed ha aumentato il salario minimo orario.
In Germania, Paese che è cresciuto più di tutti in Europa, ci sono forti tensioni sia per via della pressione migratorie che per i bassi salari che ha determinato: Nei Lander Orientali, come in Baviera, che rappresentano i due poli della povertà e del benessere, si avvertono segnali di tensione. La grande accumulazione di ricchezza attraverso l’export non è stata ribaltata sulla popolazione, e soprattutto sui milioni di persone che si devono arrangiare con i mini-jobs, i lavoretti a 450 euro mensili che danno diritto all’alloggio popolare ed alla tessera degli autobus. Una vita lavorativa che si dipana senza prospettive tra un retrobottega e una stazione di rifornimento di benzina.