(Teleborsa) - Altro che lavoretti.
Non solo rider, ragazzi nella maggior parte dei casi molto giovani, che bussano ogni sera alle porte delle nostre case per consegnare - dopo aver sfidato in bici il traffico cittadino - la cena ordinata via internet. Moltissimi di loro - circa il 70 per cento - lavorano via computer per compilare
testi, e gestire file e file di dati. Sono i lavoratori della cosiddetta
gig-economy, quelli che vedono definire il proprio impegno come
"lavoretti", ma che in realtà costituiscono una nuova classe di lavoratori che non esisteva solo due anni fa.
Il pianeta della "
gig economy" in Italia conta ormai tra 700mila e un milione di addetti: lo dicono i dati provvisori di una indagine della Fondazione Debenedetti e Inps che ha tentato di definire le dimensioni e le caratteristiche del fenomeno. Il
50 per cento dei gig-worker sono donne, solo il 3 per cento sono immigrati; per
150-200mila di loro si tratta del lavoro principale e per almeno
350mila persone di un lavoro per "arrotondare" altri introiti.
REGOLE NECESSARIE - Il loro lavoro è mediato da una piattaforma digitale, un algoritmo che mette in contatto in modo strutturato e continuativo offerta e domanda di prestazione. Una classe di lavoratori considerati autonomi, che però in effetti tali non sono e non trovano al momento alcuna collocazione tra le
formule a tutela dei diritti e della sicurezza del lavoro. "Se vogliamo mettere a fuoco e risolvere il problema occorre superare la distinzione tradizionale tra lavoro subordinato e lavoro autonomo e dettare delle discipline specifiche per il lavoro organizzato attraverso la piattaforma digitale - dice il giurista Pietro Ichino, che alla fine della scorsa legislatura ha presentato una proposta di legge su queste tematiche
- Per esempio prevedere che il titolare della piattaforma debba interfacciarsi con l'Inps e pagare le retribuzioni rispettando un minimo retributivo e una contribuzione minima essenziale in campo contributivo e antiinfortunistico" .