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Non solo carne: il documentario Until the end of the world indaga sugli allevamenti intensivi di pesce

Nel mondo sono allevati tra i 40 e i 120 miliardi di pesci

Economia
Non solo carne: il documentario Until the end of the world indaga sugli allevamenti intensivi di pesce
(Teleborsa) - Il 31 gennaio l’ONG inglese Feedback ha diffuso un report in cui si evidenzia come i produttori di salmone norvegesi (il principale produttore di salmoni al mondo) sottrarrebbero le risorse alimentari ai Paesi dell'Africa Occidentale per produrre mangimi per i pesci. Secondo le stime dello studio, nel 2020 quasi 2 milioni di tonnellate di pesci selvatici perfettamente edibili sarebbero stati usati per produrre olio di pesce per i mangimi dei salmoni norvegesi e una buona parte di questo pesce proveniva dai Paesi dell'Africa Occidentale, un’area a rischio di sicurezza alimentare, dove avrebbe potuto nutrire tra 2,5 e 4 milioni di persone.

Questo discorso, però, non riguarda soltanto i salmoni norvegesi, ma si pone all’interno di una questione molto più ampia, quella dell’acquacoltura, cioè l’allevamento degli animali d’acqua, nota per essere l’industria alimentare che cresce più rapidamente al mondo, tanto che già nel 2021 a livello globale la quantità di pesce prodotto in allevamento ha superato la pesca. Numeri esatti, quando si parla di pesci, sono praticamente impossibili, ma secondo alcune stime nel mondo sono allevati tra i 40 e i 120 miliardi di pesci, per una produzione annuale, secondo l’UN Food and Agriculture Organisation, di circa 122,6 milioni di tonnellate.

E proprio l’allevamento intensivo di pesci è il tema del nuovo documentario di Francesco De Augustinis, Until the End of the World, opera terza del regista che da sempre indaga il legame tra gli allevamenti intensivi e la sostenibilità e che stavolta si concentra su quelli di pesce, in particolare sull’impatto della produzione di spigole, orate e salmoni di allevamento.

Il documentario, frutto di un lavoro di ricerca giornalistica durato tre anni, realizzato grazie al sostegno di Journalismfund.eu e dell’Internews’ Earth Journalism Network, racconta le varie tappe di un viaggio sulle orme dell’industria dell’acquacoltura, per indagare se davvero questo modello produttivo contribuisca a rendere più sostenibile il sistema alimentare, come promette, a fronte di una popolazione mondiale che potrebbe raggiungere 9,7 miliardi di persone nel 2050.

Il documentario spiega come l’ascesa esponenziale dell'acquacoltura non sia casuale, ma il risultato di una precisa volontà politica legata all’idea della della "Blue Transformation", la strategia delle Nazioni Unite per aumentare la produzione globale di cibo con un maggiore ricorso alle risorse marine. Nei fatti però, spiega il documentario, questo sostegno incondizionato all’allevamento di salmoni, spigole, orate e altri pesci, oggi sta attirando enormi investimenti su questa industria relativamente nuova, che di conseguenza sta crescendo a dismisura in diverse regioni del mondo. Il film mostra anche gli effetti collaterali di questa crescita esponenziale, che ricorda molto quanto successo pochi decenni fa con la nascita e il diffondersi ovunque degli allevamenti intensivi di terra.

Partendo dagli allevamenti di spigole e orate nel Mediterraneo, in Italia, Grecia e Spagna, il documentario mostra l’inquinamento di paradisi naturali, la distruzione di piccole economie locali e la paradossale concorrenza di questa industria con i mezzi di sostentamento di intere comunità, anche in aree vulnerabili del Pianeta. "L’idea del documentario è quella di raccontare e mettere in collegamento le vicende di diverse comunità che in diverse parti del mondo stanno combattendo contro l’espandersi degli allevamenti di pesce", racconta De Augustinis. "Dall’Italia, alla Grecia, dalla Spagna al Senegal, fino alle acque un tempo incontaminate della Patagonia cilena, il film racconta un perenne conflitto per le risorse legato al crescere smisurato di questa industria". Il quadro che viene fuori ricorda molto una certa forma di 'colonialismo', una parola che ricorre per motivi diversi in tante parti del film. Il documentario mostra infatti come questa industria dipenda dalla cattura di risorse naturali, che siano porzioni di mare da trasformare in aree produttive o enormi quantità di pesci da trasformare in mangimi.

L’eccessiva dipendenza dalla pesca, in uno scenario dove oltre la metà delle specie marine sono già pescate sopra i livelli di sicurezza, sta spingendo l’industria a cercare "nuove soluzioni" per produrre mangimi e nutrire un numero sempre maggiore di pesci negli allevamenti. Proprio la storia di una di queste soluzioni alternative conduce lo spettatore, nell’ultima parte del documentario, "fino alla fine del mondo", tra le acque gelide che circondano l’Antartide. Questo è uno dei luoghi più simbolici del Pianeta, la cui sopravvivenza oggi è messa in seria discussione dai cambiamenti climatici. Ma anche l’Antartide, scopriremo, deve fare i conti con la ricerca incessante di materie prime per nutrire la crescita senza sosta dell’industria degli allevamenti di pesce.
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