Facebook Pixel
Milano 11:37
34.038,61 +0,29%
Nasdaq 18-mar
17.985,01 0,00%
Dow Jones 18-mar
38.790,43 +0,20%
Londra 11:37
7.710,57 -0,16%
Francoforte 11:37
17.993,93 +0,34%

Articolo 18 ed etica sociale


Sulla riforma dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori si è detto e scritto di tutto. Volerne discutere ancora parrebbe solo partigianeria, a favore dell’uno o dell’altro fronte, perché più si va avanti e più sembra difficile trovare un compromesso sulla questione del reintegro nel posto di lavoro di chi sia stato licenziato per ragioni economiche, anche qualora vengano ritenute insussitenti dal giudice cui ricorra. La soluzione alla tedesca, quella che rimette al giudice la decisione sull’alternativa tra indennizzo e reintegro, non viene accettata dai sostenitori della riforma: gli investitori internazionali non ne vogliono più sapere delle attuali tutele, ed ancorpiù sarebbero atterriti dai tempi processuali troppo lunghi.

C’è un livello di analisi della riforma che è rimasto insondato, e riguarda i principi o modelli etici cui si ispira. Non è una questione stravagante, visto che la riforma ha dichiaratamente un fine pedagogico, in una strategia volta a far cambiare i comportamenti degli italiani. Anche una legge può essere ingiusta, e ben lo sapevano i romani, quando affermavano: “Summa lex, summa iniuria”. Ed ingiusto sarebbe in questo caso il fatto che il licenziamento per oggettive, dichiarate ragioni economiche, abbia effetti anche quando se ne verifichi la loro insusssistenza. E parimenti ingiuste le conseguenze che da questa impostazione deriverebbero, incidendo sui principi di lealtà e buona fede nelle relazioni lavorative.

I criteri moderni che ci consentono di esprimere un laico giudizio morale, sono essenzialmente due. Da una parte c’è l’etica dei comportamenti, quella kantiana, secondo cui ciascuno è capace di decidere in autonomia, risiedendo la “legge morale” dentro il suo cuore: il “cielo stellato” è la moralità universale che andranno a comporre. Dall’altra parte, c’è l’etica della responsabilità, quella weberiana, secondo cui il giudizio va portato sulle conseguenze dei comportamenti. Ciò riguarda soprattutto chi comanda, nelle imprese e nello Stato. Non basta che i comportamenti siano giusti in sé: occorre che lo siano anche le conseguenze che ne derivano. Seguendo la morale kantiana, nessuno può mettere minimamente in discussione la eticità della riforma, perché dovrebbe mettere in dubbio le buone intenzioni di chi l’ha formulata. Seguendo l’etica della responsabilità, il giudizio potrebbe essere diverso: perché, per il modo in cui è formulata, ha aspetti discutibili. C’è il caso di chi, avendo dichiarato come causa del licenziamento ragioni economiche che in giudizio si rivelano insussistenti, potrebbe aver mentito mettendo già in conto il costo del risarcimento. C’è il caso di chi ha fatto una valutazione erronea, con la conseguenza di penalizzare il lavoratore oltre la sua stessa volontà. Comportamenti, entrambi, dalle conseguenze riprovevoli.

E’ come se la auspicata flessibilità in uscita dal mercato del lavoro e la giustizia intergenerazionale non possano fondarsi altro che sulla menzogna consapevole o sul mendacio conclamato: è il prezzo che il datore di lavoro deve pagare per recedere dal contratto di lavoro con un impiegato anziano, che costa troppo, e sostuirlo con un apprendista; per sostituire una commessa troppo su di chili e negli anni con una più giovane ed attraente; per assumere un commerciale, senza né moglie né figli, disposto a lavorare di domenica ed a lunghe trasferte visto che a tirar tardi la sera con i clienti si diverte pure. C’è una convenienza oggettiva, nessuno la nega, ma l’imprenditore la può perseguire solo mentendo. Una menzogna a fin di bene, che aiuterebbe anche chi viene licenziato, che a casa non dovrà ammettere i chili di troppo, gli anni che passano e lo stipendio fuori mercato: dura lex sed lex..

Epperò, con la riforma anche i rapporti in azienda ed in ufficio cambierebbero: di fronte alla richiesta insistente di un “benestare fondi” che non dovrebbe essere concesso, sarà difficile dire di no. E qualche impiegato pubblico, ancora zelante, forse comincerebbe a guardare con inutile curiosità dalla finestra piuttosto che insistere su questioni di legittimità o di opportunità. Meglio mentire a se stessi, alla propria coscienza, che rischiare: tutti teniamo famiglia.

Esiste solo il mercato e contano solo i soldi: se è questo l’insegnamento, questa verità brutale andava rivelata. Era meglio ritornare al codice civile del ’42, alla libertà di recesso dal contratto di lavoro, al licenziamento “ad nutum”, con il pagamento di una indennità, piuttosto che pasticciare con i diritti considerati desueti. Le nuove regole celano la realtà che le muove, ed è per questo che si fondano sulla irrilevanza giuridica della menzogna. Anche il peggior compromesso con la propria coscienza diverrà costume. Il denaro compra e paga, tutto e tutti, imprenditori e lavoratori, soldatini di piombo su barchette di carta, travolti dai medesimi gorghi.

Altri Editoriali
```