Ora, ci troviamo in un contesto di
risalita dei tassi: questo significa che
farsi prestare i soldi dalle banche centrali costa più caro. Gli Stati non trovano più come acquirente "fuori mercato" le Banche centrali: se vogliono piazzare nuovi titoli, o procedere al rinnovo di quelli in scadenza, devono offrire tassi di interesse più elevati rispetto al passato.
Non solo: per combattere l'inflazione, la Fed ha già deciso di ritirare liquidità dal mercato, vendendo mensilmente una determinata quantità di titoli di Stato tenuti in portafoglio: questo è il
Qt (Quantitative Tightening),
l'opposto del Qe (Quantitative Easing). In pratica, aumenta l'offerta di titoli di Stato da piazzare, e ciò fa aumentare ancora i tassi.
La conseguenza negativa per tutti gli operatori di questo innalzamento dei tassi correnti è la diminuzione del valore dei titoli circolanti rispetto al valore facciale: se il tasso di interesse corrente è salito al 3%, un titolo emesso in precedenza e che rende solo il 2% non può essere venduto al valore nominale ma ad un prezzo inferiore, in modo da eguagliarne il rendimento a quello corrente. Questo porta una perdita nei bilanci per i
titoli detenuti dalle banche e dagli altri operatori come strumento di liquidità,
"disponibili per la vendita" (available for sale).
A fronte di un ritiro di fondi, avendo esaurito la liquidità di cassa, le banche sono costrette a procedere alla vendita di questi titoli, incorrendo in perdite.
In America ed in Europa, gli investitori in azioni bancarie hanno compreso che si dovranno fronteggiare perdite rilevanti: tanto più rilevanti quanto più elevata è la consistenza dei titoli di Stato detenuti in portafoglio e tanto più è alto lo scarto tra i tassi precedenti e quelli previsti.
Le banche italiane sono dunque più penalizzate.
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