Hanno più paura a Bruxelles che a Roma, in questi giorni. Fanno la faccia feroce, mandano lettere durissime, minacciano la apertura di procedure di infrazione per deficit e debito eccessivo, ma sono ormai in un binario morto.
L'Italia ha ragione da vendere nel reclamare più spazi per la crescita e per il sostegno alla disoccupazione giovanile: a distanza di dieci anni dall'inizio della crisi, ha un PIL che è ancora del 5% inferiore a quello del 2007 ed una disoccupazione del 9,6%.
Si è fatto di tutto per abbassare i salari, per distruggere la domanda interna, per obbligare i giovani ad emigrare. Miliardi di spesa pubblica per l'istruzione sono stati messi a disposizione delle industrie dei Paesi concorrenti: i nostri giovani ingegneri, i nostri giovani medici, i nostri ricercatori sono tra i più quotati ed apprezzati all'estero.
Il tema della mobilità delle persone all'interno della Unione si è trasformato in una transumanza sociale, drogata dalle politiche europee.
I
contributi versati dall'Italia all'Unione vengono dirottati da decenni nei Paesi dell'est europeo per favorirne la industrializzazione. Si moltiplicano così le fabbriche in Polonia, in Romania, in Bulgaria, e si chiudono in Italia. Una competizione che si basa sul più basso costo del lavoro e sul più basso costo della vita in quei Paesi. Per non parlare delle delocalizzazioni che si stanno verificando verso l'Austria, dove il segreto bancario ha una tutela costituzionale, o verso la Croazia.
Tutta la costruzione europea realizzata a partire dal Trattato di Lisbona, entrato in vigore nel 2008, l'anno in cui è deflagrata la crisi americana, si dimostra inutilmente barocca.
Il
Fiscal Compact e l'ESM, trattati introdotti a latere della struttura ordinaria al tempo della crisi più profonda per stringere i bulloni alle finanze pubbliche riottose e salvare le banche dei creditori francesi e tedeschi della Spagna, si sono dimostrati
velleitari.