La competitività della nostra produzione manifatturiera derivava dal costo del lavoro, comparativamente assai più basso di quello negli altri Paesi: l'emigrazione continuava, all'interno, dal Sud verso il Nord. Così come quella stagionale verso la Svizzera, il Belgio e la Germania.
Gli anni Settanta iniziarono con una crescita impetuosa dei redditi da lavoro, basati sui contratti nazionali di lavoro nel settore metalmeccanico: in tre soli anni, dal '68 al '71, i salari nominali aumentarono del 33% e quelli reali del 26%, mentre la quota delle retribuzioni sul prodotto lordo passò dal 50,1% al 56,5%. Nell'industria dell'auto, nel 1970, l'incidenza del lavoro dipendente sul valore aggiunto arriva al 98%: i margini di profitto erano praticamente scomparsi.
Mentre l'aumento dei costi salariali si scarica sui prezzi, alimentando la duplice spirale, salari-prezzi e inflazione-svalutazione, nel 1980 l'incidenza del salario è già scesa all'84%: è già cominciata la stagione della compressione salariale, iniziata con la "svolta dell'EUR" da parte della CGIL.
Il
salario non è più una variabile indipendente, ma diviene un elemento che compone equilibri più complessi, nelle relazioni con i datori di lavoro e con il governo: il consumismo esasperato derivante da un aumento consistente dei salari distorce le funzioni stesse del benessere. L'aumento della pressione fiscale sui redditi da lavoro è ben accettato dalla sinistra, a condizione però che sia destinata ad un aumento della spesa pubblica sociale in istruzione, sanità, trasporti, edilizia residenziale.
La moderazione salariale venne usata dai sindacati come strumento di scambio con una politica di investimenti privati volti ad aumentare la produttività e per investimenti pubblici infrastrutturali: ma nulla può fermare la distorsione drammatica che deriva dall'aumento vertiginoso dei tassi di interesse decisi negli Usa, che portano alla sua prima deindustrializzazione verso il Messico.
Dopo la
crisi petrolifera del 73', e quella più breve dell'80, che aveva modificato strutturalmente i rapporti di scambio tra Paesi esportatori di materie prime energetiche e Paesi esportatori di manufatti a danno di questi ultimi, il fattore monetario rende strutturalmente più convenienti gli investimenti finanziari rispetto a quelli industriali: è da allora che inizia l'abbandono della economia reale.
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