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Felicità cronica

Borse appagate e fiduciose, ma non euforiche


Poi c'è il crollo. Cominciano i moderni, da Montaigne in avanti, con una deregulation della questione. Per essere felice ognuno si organizzi come può. La felicità diventa soggettiva e la Dichiarazione d'Indipendenza scritta da Jefferson nel 1776 garantisce a tutti il diritto di perseguirla, ciascuno come meglio crede. Si torna a una visione elitaria con Robespierre e Lenin (le avanguardie donano la felicità alle masse anche contro la loro volontà) ma dopo i fallimenti del Novecento si prende a volare più basso che si può. Le teorie si frantumano, con il New Age tornano in auge visioni gnostiche, la purificazione come anticamera dell'illuminazione e della beatitudine diventa (con tutto il rispetto) yoga e beauty farm, mentre non uno, ma ben cinque studi condotti indipendentemente gli uni dagli altri in Corea, Iran, Cile, America e Inghilterra dimostrano la forte correlazione tra felicità e consumo di frutta e verdura.

Il re e la regina del BhutanA tornare a una visione oggettiva e addirittura misurabile della felicità ci pensano gli economisti, che in questi anni, con la loro consueta grazia e leggerezza, hanno prodotto a ritmo crescente una serie di indicatori come la Felicità Nazionale Lorda (una metrica adottata ufficialmente in Bhutan), il Benessere Nazionale Lordo, l'Indice dello Sviluppo Umano, il Green and Happiness Index (adottato dalla Thailandia), il Better Life Index dell'Ocse e tantissimi altri. Tra gli indicatori di felicità più considerati ci sono di solito la durata della vita (da cui si deduce che più si è vecchi più si è contenti), la durata degli studi (quelli che resero allegro Leopardi) e le disparità di reddito (quelle che in Europa si pensa che abbiano fatto vincere Trump anche se Trump non ne ha mai parlato una volta in vita sua). In Bhutan si misura anche la felicità spirituale e con questo accorgimento le Nazioni Unite lo hanno classificato nel 2016 come il paese più felice del mondo.

Sociologi, genetisti, psicologi ed economisti del comportamento notano però che la correlazione tra ricchezza, reddito e felicità è dubbia e forse non esiste proprio. Se si chiede alle persone come si sentono nella vita i ricchi si proclamano più soddisfatti dei poveri, ma se si prova a domandare come si sentono in quel momento preciso, che sia mattino pomeriggio o sera, non si trova mai nessuna differenza. L'umore, dicono i medici, è funzione dell'omeostasi (stiamo bene se abbiamo dormito abbastanza e se non abbiamo fame o sete o prurito). I genetisti del National Institute of Health notano che non solo il benessere strutturale ma anche quello percepito hanno base genetica e indagano allo scopo il gene trasportatore della serotonina, il 5 -HTTLPR. Il padre dell'economia comportamentale David Kahneman afferma dal canto suo che la crescita della felicità si arresta sui 75mila dollari di reddito e che sopra è quasi inutile darsi da fare (dello stesso avviso il keynesiano Skidelsky nel suo recente How Much Is Enough, di avviso diverso Bezos, Buffett, Gates, Page e Brin, che hanno però obiettivi più ambiziosi del solo denaro).
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